Tremate è tornato Bruciolee (Bruce Lee)! Il personaggio mitico della nostra infanzia, quei bellissimi films a base di mosse a velocità super, salti, urla disumane, feccette buffe tutte o quasi con gli occhi a mandorla, oggetto di parodie cinematografiche, una su tutte Ku – fu dalla Sicilia con furore dei mai troppo rimpianti Franco e Ciccio, o di recenti rivisitazioni, il Kill Bill di Tarantino, rivivono nell’ultima produzione a cartoni animati della Dreamworks, Kung Fu Panda. Beh ormai parlare di cartoni è quantomeno anacronistico; si tratta infatti del trionfo della computer graphic che però, come prescrive l’ultima tendenza, recupera, nello stile grafico e nella riproduzione dei colori, l’umanità calorosa dell’animazione tradizionale. Così linee morbide tratteggiano accuratamente i simpatici personaggi studiati minuziosamente nei particolari, e fortemente caratterizzati, dalle espressioni ai gesti. Tutto ciò perché i veri protagonisti, traino dell’intero film, sono proprio loro, i personaggi. Prova ne sia l’enorme importanza che, soprattutto nelle edizioni originali, hanno le voci, appartenenti spesso a grandi attori o, meglio, a eccellenti caratteristi (vedi qui l’esuberante Jack Black per il protagonista Po, il panda citato nel titolo), che finiscono poi per prestare anche movenze ed espressioni, catturati dal computer e trasferiti ad ogni personaggio. A conferma di ciò, ahimè, l’esiguità della trama, semplice e per certi versi banale, a tal punto da mettermi in difficoltà nell’accennare qualcosa della storia, con il rischio di rivelare alla fine tutto. E qui sta forse anche il punto di forza di questo genere di films, perché si può sapere tutto di ciò che accade, ma la parte interessante e la motivazione che spinge ad andare a vederlo è il come, sono le singole battute, i rimandi al grande cinema del passato o, perché no, come in questo caso, al cinema di maniera. Bellissimo, a tal proposito, è l’intrecciarsi di linguaggi figurativi che riprendono le silouette ed i colori monocromatici degli sfondi, in particolare il rosso, del cinema di Kurosawa, durante gli scontri o i flash back, così come, durante gli stessi, lo è la presentazione dei protagonisti con tanto di fermi immagine propria dei films anni ’70 di kung fu poi ripreso nelle anime, i cartoni animati giapponesi. La trama, come accennato, è presto detta. Un panda, ciccione e pasticcione, destinato ad ereditare dal padre (un papero?) un ristorante (ovviamente cinese) il cui piatto forte è la zuppa di spaghetti con additivo speciale e segreto, si trova invece catapultato, grazie alla sua passione per il kung fu, in una avventura apparentemente più grande di lui, salvare l’intero paese dal ritorno, dopo vent’anni di prigionia, dal karateca più forte e feroce esistente, un puma delle montagne che medita vendetta nei confronti del suo maestro Shi fu, una specie di topo tappo tipo Joda di Guerre Stellari, e dei suoi cinque allievi impersonati da altrettanti animali. Sarà la fiducia in se stesso e quella del proprio maestro a trasformare un panda impacciato ed inoffensivo in un eroe degno del rispetto di tutto il paese e dei suoi compagni di lotta. Insomma una sorta di messaggio new age condito in salsa orientale, dall’imperativo di credere in se stessi per far avverare i propri sogni, alla filosofia del fato, del destino scritto nelle stelle e degli avvenimenti legati tra loro non dalla casualità, ma da un disegno preciso e di armonia universale, all’insegna della peace and love. Praticamente succede tutto ciò che ti aspetti. Quello che non ti aspetti è di uscire dalla sala al ritmo seventies della sigla di coda sferrando calci, accompagnandoli con urla a squarciagola e smorfie tipo l’ultimogridodichen, sotto lo sguardo attonito dei bambini, a cui ti verrebbe di gridare con gli occhi strabuzzati fuori dalle orbite, come tanti anni fa, “Minkia talè…sono Bruciolee”.