Un Ventennio infelice (1866 - 1886)
di Fra' Domenico Spatola
Tale fu per i Cappuccini della Provincia religiosa di Palermo il “Ventennio” 1866 – 1886. Esso è stato recentemente attenzionato dal nostro confratello Padre Mario Sciortino, bibliotecario del Convento di Palermo. Si tratta di una vicenda lunga e dolorosa, condivisa dai Cappuccini con i religiosi delle altre Congregazioni. Il Governo italiano del neonato Regno d’Italia, il 7 luglio 1866, emanò un decreto di confisca immediata dei beni ecclesiastici e della conseguente esclaustrazione dei Frati e delle Monache. Le cause della decisione andavano riscontrate nel clima di furore anticlericale e massonico alimentato contro coloro che erano ritenuti nemici dell’Unità d’Italia e di Roma capitale, cioè il clero rimasto fedele al Papa Pio IX, restio a cedere il suo Stato al Nuovo Regno Sabaudo. Già dal 1860 Garibaldi, nel suo trionfale e frettoloso passaggio per la Sicilia e il Regno di Napoli, non aveva perso occasione per mostrare tutti i poteri del dittatore, compreso quello della confisca dei beni della Chiesa. Fu tuttavia, dopo l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia (17 marzo 1861), che l’intolleranza, nei confronti dei Religiosi e dei loro beni, divenne parossistica. Giovanni Battista Naselli, vescovo di Palermo, venne rnalmenato. Benedetto D’Acquisto, vescovo di Monreale, fu incarcerato. Il clima invelenito non risparmiò i nostri Frati cappuccini, costretti a dismettere l’abito religioso e indossare i vestiti borghesi o le talari dei preti. Il ‘Corriere siciliano” li espose anche a ludibrio descrivendoli «goffamente abbigliati, da sembrare preparati per la parte del pagliaccio in qualche teatro». Padre Mario, nel suo libro «1866-1886. Un ventennio terribile per i Cappuccini» (ed. Thule), ha scelto per la narrazione un’angolatura specifica ed esente - a nostro avviso - da pregiudizi, cioè l’analisi del fitto epistolario intercorso tra i Superiori cappuccini palermitani e il loro Ministro generale di Roma. Se nei primi anni dell’applicazione dello sciagurato decreto regio le considerazioni erano di commiserazione condivisa, a partire dai 1874, sembra che i due corrispondenti non riuscissero più a comprendersi. Il ministro generale, frate Egidio da Cortona, forte dell’allentamento del rigore del decreto, essendosi ormai sbollito il fervore per la ‘Breccia di Porta Pia” (20/09/1870), e delle Fraternità cappuccine che in altre Province andavano ricostituendosi senza grossi traumi, pretendeva cha anche in Sicilia avvenisse la stessa cosa, e, inizialmente con le buone e infine con le minacce di scomunica, chiedeva che i Frati ritornassero nei conventi per riprendere insieme all’abito anche l’osservanza della regola di San Francesco. Il Padre Illuminato da Trapani, succeduto nel frattempo al compaesano padre Giustino, tentava di fare comprendere al suo Superiore generale che i Prefetti siciliani continuavano con puntigliosità a fare osservare il decreto, proibendo ai Frati il rientro nei conventi e la ripresa dell’abito religioso, pena la sospensione del vitalizio di sopravvivenza. Di particolare significato, sotto l’aspetto psicologico, è il rilievo emozionale dato dal Padre Sciortino al disorientamento dei Ministri provinciali che non sapevano cosa rispondere al loro Superiore generale circa la sorte di molti Frati, avendoli il ciclone anticlericale disseminato nei luoghi più impervi. Per quantificare, anche approssimativamente, l’entità del danno, tralasciando quello relativo ai conventi e alle opere d’arte in essi custodite, va sottolineato che, prima del 1866, la sola Provincia monastica di Palermo contava circa ottocento Frati, mentre, dopo il terribile “Ventennio”, il loro numero fu talmente esiguo da non consentire un facile riavvio. Alcuni conventi, dei quarantadue iniziali, si poterono riacquistare, ma con altre denominazioni e finalità. Quello di Palermo, ad esempio, fu ricomprato sotto il titolo di “Missioni italiane all’Estero”, mentre al momento della confisca era stato destinato a divenire carcere. Non lo fu mai. Venne piuttosto adibito a ricovero per anziani, e ospitò anche alcuni Frati che non avevano dove potersi rifugiare. Nei festeggiamenti del 1500 dell’Unità d’Italia, il libro del Nostro non si propone a “guastafeste”, gli difettano rabbia e risentimenti. Vuole solo rimarcare una ferita dolorosa, con la quale anche i nostri Confratelli in quella temperie, contribuirono, pagando un alto prezzo, all’unificazione della Nazione. Avrebbe potuto essere - come prospettato da Vincenzo Gioberti - l’Italia federale delle Regioni, dotate di proprie specificità culturali sufficienti a costruire, nella complementarietà, ricchezza collettiva. Ma il fervore della centralità del potere, e l‘entusiasmo risorgimentale demagogicamente alimentato contro esistenti regimi, come un uragano, livellò i Popoli e le culture, favorendo, nei primi tempi, povertà e miseria, realtà sconosciute fino a quel momento in alcune regioni come la Sicilia. Dopo appena cinque anni dall’annessione al Regno d’Italia, a Palermo c’era stata la rivolta del “Sette e mezzo”, quanti i giorni della protesta dei contadini, delusi e dimenticati dal nuovo Governo del quale si erano fidati. La repressione, ad opera di Luigi Cadorna e del suo esercito di ventimila uomini, fu feroce. Ripresa la piazza, il generale non fu tenero con quanti ritenne ispiratori della rivolta, cioè i sostenitori del Regno borbonico e il Clero, e nei loro confronti inasprì le sanzioni. Oggi l’Italia è unita. Tuttavia ancora troppe sono le delusioni e le spinte centrifughe, che neppure i mezzi di comunicazione di massa in tanti anni hanno saputo rinsaldare. Sembra che soltanto quando gioca la “Nazionale di calcio” il tifo accomuni. Normalmente le Italie appaiono almeno due, quella del Nord più intollerante perché rivendica identità padane, e quella del Sud, angosciata da mafia e malcostume dei politici. La Sicilia è infatti usata da questi ultimi come serbatoio di voti. Da qui sono stati eletti, fin dalla prima ora (si pensi uno per tutti a Francesco Crispi), al Parlamento italiano e al Governo deputati e ministri che, pur occupando per lungo tempo ministeri e cariche di grande rilievo, non hanno saputo fare qualcosa di rilevante per la loro terra. Le risorse vengono ancora oggi dirottate ai Nord, perché è lì - si dice con rassegnazione - la macchina trainante l’economia italiana. E la Sicilia langue anche nel settore del turismo e dell’agricoltura, cui era stata destinata agli inizi del Mercato comune europeo. Ed è proprio qui la beffa. La Comunità europea ha decretato da qualche giorno che agrumi e ortaggi vanno importati da un Paese non comunitario, il Marocco, solo per cinica convenienza economica. E’la sprezzante risposta del Parlamento europeo ai Siciliani che nella recente “protesta dei forconi”, che, meno di un mese fa, aveva paralizzato la Sicilia, volevano richiamare l’attenzione della politica nazionale ed europea sulla stagnante e disperata situazione di assenza del lavoro e di investimenti per il futuro dell’isola. Amareggia soprattutto l’indifferenza o la pavidità imbelle dei nostri politici regionali, nazionali ed europei, che si sono limitati a registrare un’ulteriore ingiustizia perpetrata nei confronti delle Regioni meridionali. La Sicilia è dunque sempre più delusa perché privata di speranza e di futuro mentre ai giovani si suole prospettare, a sfida, l’emigrazione da questa terra bella quanto infelice. Il libro del padre Sciortino dà spunto - a nostro avviso - alla riflessione accomunante i due periodi solo temporalmente lontani, ma apparentati dall’identico interrogativo angosciante: «la Sicilia è soltanto terra di conquista’?». Noi ci consentiamo di aggiungere: «Fino a quando?»
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