RICORDO DEI BEATLES AL VIGO
di Sandro Mancini
Il mio incontro con la nuova musica dei Beatles coincise con il congedo dal mio mondo infantile e l’ingresso nell’adolescenza, all’inizio della seconda media, a Milano, nell’anno scolastico 1963-64. Ricordo bene quel brusco passaggio nelle sue linee di fondo: nello stesso tornante improvvisamente divenni ateo (tornai a credere in Dio dieci anni dopo, alla fine dell’università) e mi trovai letteralmente immerso nel mondo dei Beatles. Vincendo una dura battaglia con mia madre, mi feci comprare gli stivaletti di Ringo Starr, il cappello a visiera di John Lennon, insieme alle camicie floreali col colletto stretto e arrotondato. Il primo 45 giri che comprai, coi miei risparmi, nonostante il costo esorbitante di ben 750 lire, fu anche il mio primo acquisto di un oggetto che non fosse un giocattolo o materiale scolastico: Please, please me. Ricordo la coda fuori dal negozietto di dischi di via Pier della Francesca. Coda che ritrovai all’acquisto, nell’inverno del ’64, del mio secondo 45 giri: I should have known better. Mi feci regalare a Natale il primo registratore Geloso (il tipo grande, a tre velocità: per registrare utilizzavo ovviamente la più veloce), in cui registrai dalla radio alcune delle altre canzoni tratte dal primo LP, e nacque così il primo nastro di canzoni, cui seguirono altri. La folgorante scoperta dell’universo musicale imperniato sul quartetto di Liverpool si allargò immediatamente alla sfera letteraria: abbandonai l’acquisto settimanale di Topolino per quello di “Tutta Musica”, che in terza media sostituii con “Ciao Amici”, perché il primo magazine nel frattempo aveva cessato le pubblicazioni, se non ricordo male. Conoscevo a memoria tutta la classifica delle prime trenta canzoni italiane, e guardavo con interesse anche alla classifica inglese delle prime dieci. Il mio interesse si allargò in tal modo a tutta la musica leggera, e rimase dominante fino all’inizio della quarta ginnasio, allorché scoprii il mondo insospettato della musica classica: ma per il periodo delle medie, i Beatles rimasero il baricentro del mio universo adolescenziale. Mi piacevano tutti e quattro, e mi rifiutavo di istituire una gerarchia qualsiasi tra loro, a nessun livello: l’avrei considerato blasfemo. Ricordo il corruccio con cui appresi dalla classifica di “Ciao Amici” che, per la prima volta, il nuovo 45 giri “Help” non rimase primo in classifica per molte settimane (era comunque tra i primi dieci venduti); però, effettivamente, neppure a me entusiasmò più di tanto. Era cominciato il distacco, forse dovuto anche al fatto che si avvicinava velocemente il tempo degli esami di licenza media, e le mie energie erano tutte concentrate nell’impegnativa prova che mi attendeva. Essa per fortuna andò bene, e il giorno in cui sostenni gli orali, mi fu concesso per premio di assistere al concerto pomeridiano dei Beatles. Acquistai il biglietto all’ultimo momento, e senza problemi, perché il velodromo era pieno solo per metà (conteneva in tutto diecimila persone circa). Fu il primo meeting di massa cui assistevo, non solo senza genitori ma anche senza amici, perché ancora impegnati nelle prove orali degli esami. Ciò non sarebbe stato possibile se io non avessi abitato proprio di fronte al luogo che doveva ospitare i due concerti dei Beatles (il 25 giugno 1965), quello pomeridiano e quello serale: il velodromo Vigorelli, ossia il mitico “Vigo”, sede della pista ciclistica in cui ogni anno si concludeva il Giro d’Italia, e in cui si svolgevano i campionati su pista, ove si fronteggiavano due grandissimi pistard, Maspes e Gaiardoni. Nel Vigo era ubicata anche la più importante palestra di pugilato della città, da cui vedevo uscire Duilio Loi; sul lato meridionale, trovava posto l’officina di elaborazione dei motori di auto sportive (Ferrari, Maserati, Aston Martin ecc.) gestita dal sig. Tinarelli. Di vista conoscevo molti, da vicino, ma tifavo solo per Gaiardoni; il custode del Vigo conosceva la nostra piccola combriccola di ragazzi-ciclisti, e ci faceva entrare durante gli allenamenti su pista. Più volte vidi Bartali, che non correva più, ma veniva a farsi costruire i telai delle sue biciclette da corsa da Masi, che aveva la piccola bottega artigianale in una delle due curve del Vigo, e che mi faceva entrare in essa, coi miei due-tre amici, quando c’era Bartali, (il quale, invero, ci degnava solo di qualche occhiata distaccata). Provava le bici intorno allo spiazzo antistante, destinato a posteggio auto nei periodi di Fiera, con la grande curva dinanzi alla Porta Carlo Magno della Fiera. Noi subito ci mettevamo alla sua ruota, con le nostre bici Doniselli da turismo, ma Bartali continuava a ignorarci. Torniamo al concerto pomeridiano dei Beatles. Il pubblico (ragazzi e giovani più grandi di me) occupava solo gli spalti dei due rettilinei, nient’affatto stracolmi, mentre le curve erano deserte. L’esibizione del quartetto, atteso spasmodicamente soprattutto dalle ragazze, fu preceduta da quello di alcuni nuovi gruppi musicali italiani, e da alcuni solisti: ricordo distintamente solo Maurizio coi New Dada, che mi piacque molto, e Jimmy Fontana, che cantò “Il Mondo”, e fu giustamente fischiato: che cosa c’entrava con la nuova musica dei Beatles? Anche a me non piaceva per niente quella canzone, che sapeva di muffa e di insulsa retorica. Infine i Beatles entrarono in scena, e proposero le canzoni del 33 giri Help, l’ellepi uscito più o meno contemporaneamente al 45 giri, insieme ai brani più famosi precedenti, come She love you ecc. Oltre che di Help (mi lasciò freddo anche ascoltandola dal vivo), ricordo l’esecuzione, ottima, di Ticket to ride. Mi sembra di ricordare anche I feel fine, Kansas city. Le altre non le ricordo più. Alla sera rividi lo stesso concerto dalla terrazza della casa vicina, ove abitava un mio caro amico: il Vigo questa volta era pieno, il tifo del pubblico assai vivace; non ricordo se Jimmy Fontana fu nuovamente fischiato o no. Al termine, tornato davanti al mio portone, con altri vidi passare il furgoncino Alfa Romeo che portava via i Beatles: un mio amico vide la mano di Ringo Starr, col suo grande anello. I Beatles lasciavano la città e non sarebbero più tornati. Quel concerto fu per me il vertice del mio percorso di ragazzo-fan e l’inizio del distacco da quell’universo in cui ero entrato fulmineamente un anno e mezzo prima. Lasciavo la scuola media per le superiori, in cui la musica avrebbe occupato uno spazio ancora rilevante, ma non più centrale, e in cui l’interesse si sarebbe rivolto soprattutto alla musica classica. Continuai comunque a seguire tutto il cammino dei Beatles, e poi quello di John Lennon fino alla sua morte. Le canzoni le registravo, o le ascoltavo alla radio o dagli amici, ma non comprai più dischi, perché i soldi che avevo a disposizione servivano per i libri e per poco altro. Col ’68 anch’io mi politicizzai, ma rifiutai il cliché che voleva la musica dei Beatles di destra e quella dei Rolling Stones (che pure mi piacevano) di sinistra: Let it be era per me una bella canzone, e mi sembrava sciocco rifiutarla come reazionaria.
1965: I BEATLES ARRIVANO A MILANO. IL COMMENTO DEL TELEGIORNALE DI ALLORA ...
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