A SCUOLA DI ROCK 12 - BOB DYLAN
di Dario Cordovana
Quanti musicisti devono qualcosa a Bob Dylan? E chi lo sa. Certo lui doveva molto a Woody Guthrie e al suo idolo Charlie Patton. Però se Woody Guthrie era noto per le sue canzoni di protesta, Dylan non ha mai voluto rassegnarsi a fare il cantante di protesta per tutta la vita e ad essere il messia che i giovani degli anni sessanta aspettavano. In realtà l'arrivo di Dylan dai club del Greenwich Village era stato quanto di più vicino ci fosse ad una bomba H. Nei primi anni sessanta in America i giovani del baby boom avevano assistito nello spazio di pochi mesi alla crisi dei missili a Cuba, all'inizio della guerra in Viet-Nam e all'assassinio di Kennedy. Scopertisi in tanti, cominciarono a ribellarsi all'idea di vivere in quel mondo preparato per loro dagli adulti e Bob e i suoi simili (Pete Seeger, Phil Ochs e soprattutto la sua compagna d'arte Joan Baez) cantavano quello che i giovani volevano sentire: i tempi stavano cambiando, ma quanto si sarebbe dovuto aspettare per questo cambiamento non era dato sapere. La risposta la portava il vento. Ma certo c'era qualcuno che mostrava che si poteva lottare contro i padroni della guerra anche solo con l'accompagnamento di una chitarra acustica e di un'armonica. Ma Dylan come detto non era tipo da farsi racchiudere in uno stereotipo e il festival di Newport del 1965, quando lui si fece accompagnare da un gruppo elettrico, tra la – diciamo così - perplessità dei presenti, lo fece capire bene. Anche Pete Seeger rimase disorientato da un tale voltafaccia, la canzone di protesta doveva essere veicolata da strumenti acustici e non da quelli elettrici che non permettevano di capire bene le parole. Però indietro non si torna e con gli strumenti elettrici Dylan continua a sfornare capolavori: “Like A Rolling Stone” in particolare (tratta da “Highway 61 Revisited”), diventerà uno dei suoi pezzi più celebrati. Nel 1966 è il turno del doppio “Blonde On Blonde”, con le tastiere di Al Kooper, ma da qualche tempo Dylan si fa accompagnare da un gruppo fisso che si fa chiamare semplicemente la Band. Con loro registra una serie di brani che verranno pubblicati solo alcuni anni dopo col titolo “The Basement Tapes”. Per un po' la gente non sente più parlare di lui, complice anche un incidente motociclistico che rischia di mettere fine a qualcosa di più che la sua carriera. Dylan si sposa con la sua Sara, mette su famiglia e subisce le incursioni dei fan che non si rassegnano ad avere perso il loro faro. Ma ad ogni aspettativa Bob reagisce in maniera ostinata e contraria. Nel 1969 la svolta country di “Nashville Skyline” (che contiene anche un duetto con Johnny Cash), e poi il controverso album “Self Portrait”, pieno di cover a volte un po' maldestre. Sarà il film “Pat Garrett & Billy The Kid” a riportarlo sulla cresta dell'onda, film per il quale Dylan, oltre a recitare, scrive la splendida “Knockin' On Heaven's Door”. Poi la rottura del matrimonio con Sara gli ispira un nuovo album capolavoro: “Blood On The Tracks”. Dopo “Desire” del 1975, Bob parte in tour con la Rolling Thunder Revue che lo vede riunirsi con Joan Baez. Nel tour ne succedono di tutti i colori, ma una nuova rivoluzione è dietro l'angolo, ancora più sorprendente delle precedenti: Dylan si converte al cristianesimo, ma non lo fa pesare... incide solo tre album in cui quasi tutti i pezzi parlano di questo argomento. Il migliore dei tre è il primo “Slow Train Coming”, che sfoggia la magnifica chitarra solista di Mark Knopfler. Passata la sbornia cristiana “Infidels” ci riporta un Dylan in gran forma, ma in generale gli anni ottanta sono avari di soddisfazioni artistiche per il musicista di Duluth. Solo nel 1989 “Oh Mercy” dà segni di vitalità. In cabina di regia c'è Daniel Lanois, uno dei produttori più apprezzati del momento. Purtroppo però Dylan non riesce a consolidare la forma ritrovata e “Under the Red Sky” è un nuovo disco opaco. Più interessante in quel periodo è il varo dell'operazione “The Bootleg Series”, viaggio negli archivi di inesauribili sorprese. Sono in molti a chiedersi se proprio non c'era modo di includere in “Infidels” un capolavoro come “Blind Willie McTell”. E “Series Of Dreams” non meritava forse il palcoscenico di “Oh Mercy”? Non trovando ispirazione nel presente Dylan si tuffa nel passato: “Good As I Been To You” e “World Gone Wrong” sono due omaggi agli eroi musicali della sua giovinezza, in primis Charlie Patton. A cavallo tra anni ottanta e novanta c’è invece l’esperienza con i Travelin’ Wilburys, sorta di giocoso supergruppo messo assieme con George Harrison, Jeff Lynne, Tom Petty e, limitatamente alla prima parte dell’avventura, Roy Orbison, che dopo il primo dei due album del gruppo passerà improvvisamente a miglior vita. Per trovare un album di canzoni nuove firmato Bob Dylan bisognerà attendere il 1997. “Time Out Of Mind”, prodotto ancora da Daniel Lanois, riporta il nostro ai suoi livelli migliori. Gli album successivi confermano più o meno questo stato di forma. Anche se la voce è spesso somigliante a quella di un rospo, gli ultimi album mantengono alto il livello. Tra questi anche un disco di canzoni natalizie (!), “Christmas In The Heart”, dimostra che Dylan non finisce mai di stupire. Malgrado abbia passato i settanta è sempre in piena attività: il Never Ending Tour, la prima parte della sua autobiografia, la trasmissione radiofonica Theme Time Radio Hour sono ulteriori prove della sua mancata voglia di ritirarsi, anche se il suo ultimo album si chiama “Tempest”, come l’ultima opera di William Shakespeare…
Tre dischi da avere: Highway 61 Revisited, Blood On The Tracks, Time Out Of Mind.
Un disco da evitare: Dylan & The Dead.
Knockin' On Heaven's DoorBob Dylan
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