In un anno particolare come questo, anche l’opportunità di
fare il Festival di Sanremo è stata molto discussa. C’erano tante persone nei
social che dichiaravano che non lo avrebbero guardato, in segno di rispetto nei
confronti di un mondo dello spettacolo messo in ginocchio dalle continue e
prolungate chiusure dei teatri a causa della pandemia. Alcune di queste persone
erano potenziali telespettatori del Festival, gente che, sia pur
distrattamente, per anni lo aveva seguito. Bene, se uno di questi avesse
pensato di fare una parziale eccezione alla sua decisione di non guardarlo e
avesse, preso da un momento di insonnia, acceso il televisore su Rai Uno
intorno all’una di notte, magari incuriosito di scoprire chi erano i magnifici
tre che, come succede da anni, vengono scelti per giocarsi al televoto la
vittoria finale, si sarebbe trovato davanti Michele Zarrillo, Paolo Vallesi e
Riccardo Fogli e si sarebbe fatto una strana idea dell’edizione di quest’anno.
In realtà quei tre erano lì solo in qualità di ospiti in
attesa che arrivasse il verdetto che alla fine avrebbe decretato l’inaspettata vittoria
dei Maaneskin, con una canzone rock dal titolo “Zitti e buoni”. Il televoto
ancora una volta si è espresso in modo imprevedibile: Ermal Meta con la sua
bella canzone “Un milione di cose da dirti” era stato sempre in testa in
classifica e a questo punto sembrava il favorito d’obbligo. Una canzone
costruita in modo semplice ma che per Meta ha voluto dire una scrittura più
misurata rispetto al solito. Fedez e Francesca Michielin, giunti secondi,
sembravano a quel punto gli unici a poterlo contrastare. La loro canzone
denotava una scrittura più banale, ma vista la popolarità dei due, le
possibilità di vittoria c’erano. Invece sono saltati fuori i Maaneskin.
Ma il rock non era finito? Chi lo ascolta oggi se non vecchi
nostalgici e pochi ragazzi che fanno gli alternativi perché cresciuti a pane e
rock da qualche genitore?
Due anni fa vinse Mahmood e la sua vittoria destò molte
perplessità e polemiche. Il grande favorito Ultimo, che arrivò secondo (scusate
il bisticcio) era un compositore di tipo tradizionale, la sua era una ballata
in stile Coldplay come ne abbiamo sentite e continuiamo a sentire al Festival
(quest’anno Annalisa, Noemi, lo stesso Ermal Meta…): si basano su un inizio
condotto immancabilmente dal pianoforte che prelude a una strofa cantata a
bassa voce dal cantante di turno; il pezzo poi esplode nel ritornello cantato a
voce piena (e qui si gioca la fortuna del brano), poi c’è una seconda strofa
cantata un’ottava più alta della prima, che porta di nuovo al ritornello, poi
l’orchestra ripete in genere il riff iniziale del pianoforte, ripresa del
ritornello, ovazione finale.
Di contro anche Mahmood ha lasciato le sue tracce evidenti.
L’esotismo arabeggiante che aveva lasciato interdetto il cultore della
classicità nella canzone sanremese, ma era stato tanto apprezzato dalla critica
specializzata, aveva finito poi per essere accettato anche dal grosso pubblico.
Anche quest’anno questo tipo di influenza si è sentita nei brani di Madame, di
Irama (presente solo con il filmato delle prove, causa quarantena dovuta alla
positività al Covid riscontrata in un paio di membri del suo staff), di Gaia.
Cosa succederà ora con la vittoria dei Maaneskin? Ci sarà una nutrita imbarcata
di rockettari al Festival? Sarebbe davvero un fatto nuovo.
L’edizione di quest’anno ha ancora una volta cercato di
rappresentare un ventaglio molto ampio di tendenze. C’è un ritorno della
melodia anche d’altri tempi (Colapesce e Dimartino erano un concentrato di
riferimenti per chi se li vuole andare a cercare, e forse anche per questo
hanno avuto un grande successo e vinto il premio della critica, ma anche Bugo, i
Coma Cose, lo splendido Fulminacci e naturalmente Orietta Berti che, con
l’eccezione dell’edizione 1970, quella di “Tipitipitì”, brani stupidi al
Festival non ne ha mai portati).
Rapper veri e propri non ce n’erano, ma Willie Peyote viene
da quel mondo e il suo pezzo, “Mai dire mai (la locura)” era una critica anche,
ma non solo, di quel mondo in cui “tutti ‘sti rapper c’hanno la band anche
quando parlano l’autotune”. Poco interessanti invece lo scrittore Gio Evan,
detto “lo spiaggiato” (un pezzo con le solite tre note contigue messe in fila)
e i giovanissimi Fasma e Random (ancora una volta si aspettano le novità da
giovani che sembrano ancora più conservatori dei vecchi).
Poi c’erano i veterani, alcuni dei quali per la verità più
che a Sanremo sembravano essere in un qualunque show del sabato sera, come Lo
Stato Sociale, che prima del Festival deve aver fatto un’indigestione di
filmati di Elio e le Storie Tese, e Max Gazzé, che dopo la prima serata ha
fatto fuori la sua band immaginaria chiamata “Trifluoperazina Monstery Band”
(ma allora a quel punto dateci un po’ di Intima Psicotensione!) per una mezza
riedizione del suo vecchio successo “Sotto casa”. In effetti non si dovrebbe
autocitarsi in modo così palese, ma lui stesso ci assicura che “SI PUO’ FARE!”
Arisa e Malika Ayane sono tornate al Festival, ma per motivi
diversi avevano brani non del tutto soddisfacenti, mentre Francesco Renga con
un pezzo abbastanza complicato da cantare, non è stato certamente favorito dai
problemi di resa sonora che si sono verificati in particolare durante la prima
serata. Poi lui ha fatto il bis venerdì quando ha dovuto persino rieseguire la
sua “Quando trovo te”.
Rappresentato in qualche modo il jazz da Ghemon (!) e il
liscio dagli Extraliscio, c’era anche il rhythm and blues (un po’ annacquato in
stile Simply Red) nel girone delle nuove proposte. Lo portava il siciliano
Davide Shorty che è sembrato comunque uno dei più interessanti in quel gruppo
insieme a Folcast e agli eliminati Avincola e Greta Zuccoli. Invece ha vinto
Gaudiano, non in modo sorprendente. Ne sentiremo parlare?