GIUSEPPE MANGO COME MARY SCHNEIDER
di Fabrizio Orrigo
Gli umani sono animali ben particolari. Possono svolgere le attività più nobili, quelle più orrende e persino le più inutili e assurde, sempre con quella convinzione che porta ciascuno a credere di stare facendo qualcosa di fondamentale. Soprattutto nel campo artistico si annidano misteri insoluti in cerca di approfondimento. Come mai sulle alpi si canta in falsetto per chiamare le pecore? A pensarci bene, non vi è una risposta ovvia. L'alimentazione schizoide a base di formaggi e grappa? Una lieve e serpeggiante allegra demenza provocata dalla scarsa densità di ossigeno? Chi può dirlo? Eppure, ancorché notevole, il mistero dello yodel viene sicuramente superato da quello della sua irrazionale mappa di diffusione planetaria. È abbastanza noto il caso della cantante Mary Schneider, australiana di Brisbane, titolare di diversi dischi incisi a partire dal secondo dopoguerra, insegnante di canto yodel ed ancora capace, ultrasettantenne, di duettare in diretta radiotelevisiva con Brian Ferry dei Roxy Music, per non parlare poi della sua versione yodel della celeberrima “Stairway to heaven” dei Led Zeppelin, recentemente intonata nel corso di un'intervista radiofonica. Ma se lo yodel australiano può destare perplessità, sicuramente quello lucano non è da meno. Direttamente da Lagonegro arriva negli anni ottanta del ventesimo secolo il fenomeno Mango. Da quei beati giorni di edonismo reaganiano e di pseudo-riflusso, fino ad oggi, molti si saranno chiesti (ed altri ancora se lo chiederanno): perché piace? Sarà per le melodie sapienti che gli confeziona il fratello Armando o per i testi ad hoc da innamorato perplesso doc, frutto della penna di mr. Rapetti? La sua voce è comunque inconfondibile e tale riconoscibilità, trionfante anche su ascolti di pochi secondi, passa indubbiamente per la cifra stilistica dei vocalizzi alpini. Da “Oro” fino a “Ti amo così”, nella sua carriera che si snoda tra alterne fortune, il suo afflato canoro sempre ad un passo dallo yodel più sfrenato rimane la costante incontrovertibile, vero e proprio fil rouge che segna tutta la sua produzione e rappresenta ciò che egli un giorno avrà lasciato di sé ai posteri. Bene, fin qui il mistero (e c'è poco da scherzare giacché la lettera Kappa è nata per spaventare). Ma proviamo a darne una possibile spiegazione, senza neppure scomodare Mark Buchanan e la sua teoria sulle “reti piccolo mondo”. Nel 1985 il nostro consegna alle stampe l'album “Australia”, la cui title track recita, tra l'altro: “...montagne e vaste praterie da percorrere a cavallo, un altro blu, un altro blu. Il vento è come un gran respiro che va e spazza via confini e città entra in me...”. È qui evidente la metafora, il Nuovissimo Continente visto come scenario di trasfigurazione e traslazione dell'incanto alpino, e poi quel preciso riferimento al vento che "entra in lui", fino a plasmargli la voce. Tutto ciò concorre a suggerire che quella canzone, se non addirittura l'intero album, possa venire riguardata come un appassionato e deferente omaggio rivolto dal cantore lagonegrino alla sua insegnante personale di yodel.
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