Celibidache, ovvero la bellezza della musica per trovare la verità
di Enzo Acquadicielo Ieracitano
Il requiem mozartiano rimane certamente tra le opere più affascinati e complesse della storia della musica. La genesi di questo capolavoro è ancora ammantata dal mistero e numerose leggende sono fiorite attorno alla figura dell’oscuro committente che, ad un Mozart ormai malato e dimenticato da tutti , chiese di comporre in brevissimo tempo una messa da requiem dietro compenso di 50 ducati. Mozart non riusci a terminare il lavoro e la morte lo colse, con la sua infallibile falce, il 5 dicembre 1791 quando il genio salisburghese era arrivato a scrivere solo le prime otto battute del Lacrymosa. Opera controversa e da sempre ammantata da un alone romantico e maledetto il Requiem ha fatto fiorire numerose leggende intorno alla sua creazione sin dal 1830, anno in cui Puskin scrisse il suo romanzo Mozart e Salieri, fino ai giorni nostri come testimoniato dal suggestivo film di Milos Forman Amadeus del 1984. Oggi sembra quasi certo che il committente fosse il conte Franz Walsegg Stuppach, un ricco nobile dilettante che si pregiava a far passare le opere di altri compositori per proprie, il requiem nella versione che conosciamo fu completato da uno degli allievi di Mozart : Franz Xavier Sussmayr, in base ad alcuni appunti lasciati dal maestro. Qui non voglio certamente riannodare questi fili sparsi in quella zona oscura e affascinante, spesso fertile di emozioni e di immaginazione, che sta tra leggenda e realtà, ma provare a concentrarmi sugli aspetti squisitamente musicali del capolavoro mozartiano e per farlo userò come guida l’interpretazione del Requiem nella lettura intensa e assolutamente personale di un gigante della bacchetta e dell’evoluzione del pensiero musicale quale fu Sergiu Celibidache. Quello di Celibidache è un nome forse non notissimo alla gran massa degli appassionati ma rimane uno degli interpreti che hanno lasciato un solco profondo e fruttifero nella storia dell’interpretazione musicale dell’era moderna per cui ritengo opportuno scriverne qualche breve cenno biografico. Nato a Roman, una piccola città situata nella parte nord orientale della Romania, l’11 luglio 1912 in una famiglia molto agiata, il piccolo Celibidache manifestò ben presto un profondo e viscerale interesse per la musica benché la sua famiglia non godesse di particolari tradizioni in tal senso. Il padre, infatti , era prefetto e sognava per il figlio una brillante carriera diplomatica e si oppose con tutte le sue forze a che il figlio diventasse musicista. Ma il giovane Sergiu sentiva preponderante il richiamo dell’arte e a 23 anni abbandonò la casa paterna per partire, senza un soldo, alla volta di Berlino e inseguire i suoi ideali. Iniziò allora un periodo durissimo, ma fecondo, per la formazione del maestro rumeno: solo, in terra straniera, senza mezzi di sussistenza e animato unicamente dal desiderio di apprendere, studiò filosofia e scienza della musica nella capitale tedesca e visse esperienza di estrema ricchezza per la sua formazione culturale ed umana ancorché difficilissime sul piano della quotidianità e della sopravvivenza. Fino al 1945 studiò intensamente al Conservatorio di cui divenne anche insegnante, e fece le sue prime esperienze di direzione con l’orchestra degli amici della musica di Berlino e in breve grazie al tam tam degli appassionati e degli amatori, le voci sulla bravura e l’intensità delle interpretazioni del giovane musicista rumeno incominciarono a circolare per tutta Berlino. La svolta della sua carriera avvenne per una tragica circostanza: il direttore Leo Borchard era stato ucciso per errore da una sentinella americana nella Berlino occupata, e così il 29 agosto 1945 il giovane Celibidache venne letteralmente spinto sul podio per sostituirlo alla guida dei prestigiosi Berliner Philarmoniker in un concerto che prevedeva musiche di Rossini, Weber e Dvorak. Fu un trionfo, tanto che la stessa orchestra, la più prestigiosa d’Europa, nomino subito Celibidache direttore titolare! Iniziò allora un periodo molto intenso in cui Celibidache si prodigò in un’attività significativa e importante per lo sviluppo dell’orchestra e per la diffusione della musica e della cultura in una Berlino devastata dalla guerra. Fino al novembre del 1954 condivise la direzione dell’orchestra con il grandissimo Wilhelm Furtwangler un vero e proprio monumento della storia della musica. e quando Furtwangler fu colpito da un fortissimo ostracismo in quanto accusato di avere collaborato con il regime nazista, Celibidache, convinto della sua innocenza, lavorò lealmente e con grande impegno per agevolare il processo di denazificazione. Ma quando Furtwangler morì, il 30 novembre 1954, si pose il problema della sua successione e l’orchestra berlinese, con un occhio ai possibili futuri scenari e a una svolta dal punto di vista della commercializzazione del prodotto musicale e del miglioramento economico, scelse al suo posto Herbert von Karajan. Fu un duro colpo per Celibidache, il quale aveva dato tutto se stesso per quell’orchestra e per lo sviluppo della vita musicale tedesca, che lo portò verso un percorso diverso ed inusuale. Il grande direttore rumeno infatti decise di abbandonare per sempre ogni incarico “istituzionale” e di grande visibilità e prestigio e incominciò una lunga peregrinazione in ogni angolo del mondo. In Francia, in Inghilterra, in Svezia, in Italia ( è venuto diverse volte anche a Palermo negli anni 60), in Sud America, in Danimarca, Celibidache abbandonò il giro e il palcoscenico delle grandi orchestre europee e delle loro istituzioni paludate, per far musica con orchestre spesso tecnicamente inadatte e quasi imbarazzanti, ma dalle quali il suo sapere e la sua inesauribile energia riusciva a trarre, grazie a sessioni di prova estenuanti e minuziosamente preparate, risultati insperati. Famoso per esempio è il suo ciclo delle sinfonie di Brahms registrato con l’Orchestra della Rai di Milano, oggi introvabile, in cui una orchestra dignitosa, ma lontana parente delle più famose compagini europee, riesce a scovare in quei capolavori noti e arcinoti, accenti di rara bellezza e sensazioni sepolte da decenni di abitudini e incrostazioni. Uomo tutto d’un pezzo ma capace di gesti di profonda e autentica umanità, anticarrierista convinto che metteva le ragioni dell’Arte prima di ogni altra cosa, Celibidache fu una figura singolare e persino scomoda nella storia dell’interpretazione. Il grande direttore rumeno odiava i dischi e riteneva che la riproduzione e la deformazione attraverso mezzi tecnologici dell’ evento musicale, ne potesse consentire solo una percezione parziale e meccanica, denudata di ogni spontaneità. Con una celebre battuta amava definire il rapporto di un direttore d’orchestra con la sala d’incisione come quello di un Don Giovanni che va a letto con la fotografia di una bella donna! Si può ben capire allora perché i Berliner scelsero Karajan, con il quale raggiunsero una notorietà planetaria e crerono un fatturato impressionante, al suo posto. Ma in buona sostanza chi è il Celibidache direttore d’orchestra? Schiller sosteneva che solo chi raggiunge la bellezza può raggiungere la verità, Celibidache fa propria questa affermazione ma nel suo percorso filosofico e musicale la bellezza non è il punto d’arrivo, bensì è l’esca, è il mezzo che ci consente di iniziare un cammino. Per questo spesso il suo linguaggio e le scelte dei tempi e delle sonorità, spesso inusuali e controverse, lo rendono un direttore difficile da comprendere e da accettare fino in fondo. Chi identifica la musica soltanto con la facile adrenalina nata dall’ascolto superficiale di alcuni frammenti dei più noti capolavori, chi ama le sensazioni grossier o l’espressione immediata ed edulcorata delle facili emozioni, rimarrà sempre lontano dall’arte del maestro. Chi invece sarà disposto a spogliarsi di sedimentate abitudini di ascolto per iniziare un cammino nuovo, potrà riscoprire brani ascoltati migliaia di volte sotto una nuova luce e sentire l’eco di vibrazioni inattese e rivelatrici. E’ anche il caso di questo requiem mozartiano registrato dal vivo negli ultimi anni di vita del maestro con la prediletta orchestra di Monaco, in cui già le celeberrime note dell’introduzione ci introducono in un universo spirituale del tutto nuovo. Il tempo straordinariamente largo e lento del tema iniziale sembra veramente quello di chi inizia un nuovo viaggio per l’ultima volta nella sua vita, la struttura armonica e gli impasti strumentali vengono delineati con una chiarezza inaudita e ci fanno riscoprire emozioni che credevamo sepolte dalla routine di esecuzioni spesso frettolose e superficiali. La sensazione è che la musica parli da sola e che la sua intima struttura venga all’improvviso svelata grazie ad un approccio meditativo e profondo in cui ogni nota pone una domanda a cui fa seguito, puntuale, una risposta. La tensione cresce graduale e vibrante per raggiungere il suo culmine, forse, nella stupenda esecuzione del Confutatis, pagina che altrove ha dato la stura ad esecuzioni a tinte forti e sulfuree, ma che qui trova la sua collocazione in una intima e implorante richiesta di pace e di perdono. Anche quando il dischetto smette di girare nel cassetto del lettore cd la musica continua a vibrare dentro di noi a lungo, con un eco profonda e commossa. Ottimo l’equilibrio del quartetto vocale ed eccezionale la risposta della filarmonica di Monaco capace di sonorità terse, luminose, e di inaudita bellezza. Celibidache ci insegna a rivedere il nostro rapporto con la musica e con le nostre emozioni in termini assai più consapevoli e fuori dai luoghi comuni e dalle inveterate abitudini della nostra epoca caratterizzata, nell’arte, nella politica, nell’istruzione, dal mordi e fuggi e dal consumo sfrenato e inappagante. In ogni caso è un disco da ascoltare e da conoscere.
Un estratto da un documentario su Sergiu Celibidache andato in onda qualche tempo fa su sul canale Sky "Classica"
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