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2 maggio 2008

I DISCHI DELLA VITA - Prima puntata

di Davide



Ho una età che mi permette di ricordare i dischi in vinile e, quindi, di possederne tanti, la maggior parte da me acquistati e che rappresentano in qualche modo la mia formazione musicale adolescenziale e poi giovanile fino al diffondersi del cd ed alla definitiva scomparsa del disco. Oggi, quando sembra che anche il cd sia avviato al tramonto o comunque relegato ad un ruolo di secondo piano per soli amatori soppiantato dalla musica via internet, legale o meno, il disco è ritornato in alcuni negozi, che un tempo si chiamavano proprio negozi di dischi, discherie. Improvvisamente è ricomparsa la mitica vasca, magari più piccola di allora, o magari ero io ad esserlo, piena di copertine di cartone incellofanate che raffigurano qualche mito di allora ma soprattutto molti miti di oggi. Da Madonna ai R.E.M., dagli U2 ai Red Hot Chili Peppers esiste una produzione di nicchia indirizzata non solo a nostalgici ma anche a giovani ascoltatori alla ricerca di nuovi piaceri, come quelli di sentire una musica più profonda, che emerga dal suono piatto e spesso omologato del digitale, una musica che si può toccare non solo attraverso la propria sensibilità d’animo ma anche, magari, proprio con le mani. Vedere lo scintilliò brillante del vinile nella sua perfezione e “fragranza” non appena spacchettato, sentirne il profumo abbinato a quello della plastica e del cartone fresco di stampa ma soprattutto godere del cromatismo della copertina, aprirla e svelarne i segreti è un piacere che sembra trovare estimatori anche oggi nell’era della fast music, del prodotto musicale.
Non a caso queste vere e proprie special version presentano spesso edizioni particolari con pezzi inediti o rielaborati per l’occasione, vinili colorati o “picture”, gadget allegati, adesivi e posters.
E’ stato un vero piacere fare scorrere di nuovo le dita lungo le batterie di dischi, soffermarsi su questo o quello, passare del tempo a leggere ed immaginare la musica che ciascuno conteneva, “entrare” dentro le copertine, un tempo veri e propri capolavori nei capolavori basti pensare a quelle di Wohrol per i Velvet Underground (la famosa banana) o per i Rolling Stones (la famosissima copertina con lo zip), scoprirne i dettagli. Insomma tornare ad un tempo in cui la musica aveva colore e odore, quando dicevi “l’hai sentito il white album dei Beatles” detto così per la copertina immacolata o chiedevi “mi da l’ultimo dei Pink Floyd, quello con il tizio che brucia in copertina (anche se in realtà era impacchettato con del cellophane nero con adesivo rotondo).
Alle mitiche vasche di Ricordi in via Ruggero Settimo. Quanti dischi ed ognuno un piccolo segno sulla propria vita, una tacca come i pistoleri. I dischi di una vita. I dischi della vita.
Ciascuno di noi (di una certa età) né ha.
Il primo disco della mia vita è sicuramente “Zenyatta Mondatta” dei Police di Sting (al basso elettrico), ma anche di Stewart Copeland (batteria) e Andy Summers (chitarra). Era il 1980 e fu il primo disco da me acquistato “in autonomia”. Prima di lui la collazione di famiglia comprendeva qualche vecchio album di Bongusto e di Mina, intere raccolte di Fausto Papetti (apprezzabilissimo per le libidinose copertine con donne nude, dei veri capolavori!!), uno Steven Slacks (o Shlacks???), molta disco tra cui un allucinante album dei Tavares e (quantomeno) un Santana, quello di Europa, più tardi da me riscoperto (Abraxsas è a tutt’oggi uno dei capolavori indiscussi della musica moderna, più attuale di ogni contemporaneo tentativo di cross over – world music) ma allora in auge come musica “ambient” per matrimoni.
Venne acquistato con i proventi del mio dodicesimo compleanno, assieme a Dalla di Lucio Dalla, quello con il baschetto in bianco e nero, con Futura e Balla balla ballerino. Ma divenne il mio compagno preferito per diversi giorni. Lo ascoltavo e riascoltavo, con pazienza zen, cambiavo lato, rimettevo il braccio del giradischi (il “piatto”) in posizione, guardavo la puntina in controluce, una mitica Shure, toglievo la mattolicchia di polvere con il panno “antistatico”, abbassavo la levetta e via il fruscio di partenza e poi di botto la musica.
Primo pezzo “Don’t stand so close to me”, sintetizzatore che introduce il giro armonico con lieve spazzolamento di corde di chitarra, poi il charleston di Copeland e il colpo di grancassa ritmico come una fucilata nella quiete di sottofondo e la voce di Sting, nuova, diversa, come qualcosa di mai sentito. E poi il ritmo, basso e batteria si inseguono accompagnati con discrezione dalla chitarra in realtà protagonista oscura della componente “musicale” del pezzo, sminuita da quella voce roca e potente. Uno stile particolare ed irripetibile che ti prende al primo ascolto come la più infantile delle canzonette (Dedodododedadada) ma che si scopre ai vari ascolti come un vero distillato di cultura musicale contrappuntato da preziosismi sonori e vocali.
Era la reggatta de blanc (come il loro secondo disco, Zenyatta era invece il terzo) il reggae dei bianchi. La seconda metà degli anni ’70 era stata caratterizzata musicalmente dalla novità reggae, come alternativa colta alla disco music, ed aveva contaminato il pop. Ricordate certamente la svolta rasta di Stevie Wonder, quella di Hotter than July. E reggae voleva dire Bob Marley che proprio nel 1980 fece uscire il suo ultimo album Uprising che conteneva il suo testamento spirituale Redemption Song. Quella dei Police fin dall’esordio è una musica fortemente e dichiaratamente ispirata dal reggae ma non semplice riproposizione annacquata come, ad esempio, per i futuri UB40, ma trasfigurazione attraverso la cultura musicale europea, scevra della componente spirituale e religiosa giamaicana ma piena di stimoli diversi. Un primissimo esempio di world music non importando i ritmi tribali nella musica europea semmai al contrario, jazzando il reggae filtrandolo con la allora contemporanea ondata punk della british wave.
Tutto questo con il senno del poi, al momento mi sembrava solo una musica trascinante, un ritmo irresistibile e canzoni da cantare a squarciagola saltellando come un invasato, altro che canna, un cannone, un suono che parlava una lingua diversa ma che sembrava parlare di me.
Gran parte dei pezzi dell’album sono diventati dei classici della musica del gruppo, da Driven to tears a When the world is running down.. , da Shadows in the rain a Dedodododedadada, mentre il disco in realtà non è certamente il loro migliore (meglio di sicuro Regatta de blanc e, per un altro verso, Sincronicity), ma è stato il mio primo disco della vita e ancora lo conservo gelosamente come uno dei più importanti della musica di tutti i tempi.
Nella mia memoria, oltre le canzoni, anche tutti i fruscii e i tac tac (si diceva che il disco “friggeva”) dei graffi che ancora solcano indelebilmente il vinile e oggi, quando “metto” il cd dell’album che successivamente ho comprato, la mia mente vi sovrappone i rumori.
Uno in particolare proprio all’avvio di Don’t stand…, un tac che si contrappone ritmicamente alla grancassa…sintetizzatore MMMMMMMM, chitarra DEN, DEN, charleston TZ, TZ, grancassa TUM e…TAC, grancassa TUM….TAC, voce, YOUNG TEACHER THE SUBJECT OF SCHOOLGIRL FANTASY………

Il primo "mitico" disco acquistato da Davide: "Zenyatta Mondatta" dei Police


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