“L’amore è una colomba” apre la seconda serata del Festival: si tratta di un motivo senza infamia e senza lode ben interpretato da Marisa Sannia e da Gianni Nazzaro. Con “Ahi ahi ragazzo” Rita Pavone ci riprova un anno dopo l’esordio. Spalleggiata dall’esordiente Valeria Mongardini quest’anno va anche peggio, in quanto il brano, sia pure per poco, manca l’accesso in finale. Chiude la prima terna un altro pezzo escluso:”Io mi fermo qui”, che però avrà a posteriori un buon meritato successo: si tratta senza dubbio di uno dei brani più moderni presenti al Festival e sia l’esecuzione incalzante di Donatello che quella dei Dik Dik, caratterizzata al solito dal suono dell’organo caro ai Procol Harum, che il gruppo italiano utilizza dai tempi di “Senza luce”, lo valorizzano appieno. La seconda terna si apre con “Ahi! Che male che mi fai” (curioso…due pezzi con l’interiezione “ahi” a breve distanza l’uno dall’altro), esordio al Festival, come autore di Toto Cutugno, ma l’accoppiata di interpreti formata da I Ragazzi della via Gluck e da Paolo Mengoli è deboluccia ed il brano si ferma lì. Molto più interessante del resto “La prima cosa bella”, ritorno al Festival dopo tre anni di Nicola Di Bari, che ha subito una vera e propria trasformazione: da cantante aggressivo, urlatore, con la sua voce roca ma particolarissima è diventato un cantante melodico di prima grandezza, che per un paio d’anni dominerà i più importanti concorsi canori. La canzone del Festival si riferisce alla nascita della sua prima figlia e in origine doveva essere cantata anche da Gianni Morandi. Quando il ragazzo di Monghidoro per l’ennesima e non ultima volta decide di rimandare il suo debutto al Festival, viene proposto di affidare il pezzo ad un poco noto quartetto ligure, i Ricchi e Poveri. Questi ultimi se la caveranno benissimo, ma la versione destinata a rimanere nell’immaginario collettivo è quella di Nicola Di Bari, grazie anche alle chitarre di Mario Lavezzi e di Lucio Battisti (eh, sì, ancora lui). Risultato? Un secondo posto finale che avrebbe potuto anche essere primo, ma… Poco da dire invece su “Ciao anni verdi” che non arriva in finale lasciando a piedi i Domodossola e Rosanna Fratello, una che al Festival, se si eccettua l’edizione degli sconosciuti del 1975, non ha mai avuto fortuna. E veniamo all’accoppiata più strana del Festival: per cantare “Sole, pioggia e vento” i discografici non hanno niente di meglio da fare che mettere insieme Luciano Tajoli e Mal. Insomma la canzone sarebbe più adatta al pubblico delle nonne o delle ragazzine? Dei due certo quello che ne soffre di più è Mal, mentre Tajoli, che ormai va al Festival praticamente per divertirsi, non rischia nulla. Alla fine la canzone va in finale, ma la sua storia praticamente finisce lì. Giovanissima invece l’accoppiata Rosalino Cellamare-Nada che esegue “Pà diglielo a mà”, e ovviamente è giusto che fosse così (ce lo vedete Tajoli a cantarla?). Rosalino (futuro Ron), risulta uno dei pochissimi giovani lanciati da questo Festival a riscuotere successo, mentre Nada si conferma dopo il successo dell’anno precedente. “Accidenti” viene invece eseguita dal Supergruppo (ovvero Ricky Gianco con vari componenti presi dai gruppi più in voga: Mino Di Martino dei Giganti, Victor Sogliani dell'Equipe 84, Pietruccio Montalbetti dei Dik Dik e Gianni Dall’Aglio dei Ribelli) e da Rocky Roberts, ma si tratta di un’altra composizione che non lascia tracce, anche se le intenzioni vorrebbero essere battistiane, con la strofa melodica e il ritornello ritmato. La quaterna finale comincia con “Hippy”, scialbo pezzo fuori tempo massimo (“hippy” nel 1970?) che spreca due bravi interpreti come Fausto Leali e Carmen Villani, ma riesce comunque ad approdare in finale. “Re di cuori” è invece un brano movimentato nel tipico stile di Caterina Caselli, molto più a suo agio del suo partner Nino Ferrer. Non ci sono grandi prospettive per “Ora vivo”, brano di per sé già non straordinario e affidato a due liceali provenienti da Castrocaro, Francesco Banti e Dino Drusiani, che carneadi erano e carneadi resteranno. Chiude questo Festival “L’arca di Noè”, ennesimo splendido pezzo di Sergio Endrigo, qui più ermetico del solito (“Un volo di gabbiani telecomandati ed una spiaggia di conchiglie morte/nella notte una stella d’acciaio confonde il marinaio…”). Malgrado la difficoltà della strofa, il ritornello è accattivante e ripetuto fino allo sfinimento. A chiudere il Festival la seconda esecuzione, di Iva Zanicchi. “L’arca di Noè”, approdata in finale col miglior punteggio della seconda serata, sarà in lizza a lungo per la vittoria finale, ma alla fine si dovrà accontentare del terzo posto, superata da Celentano ed anche da “La prima cosa bella”. Quarta “Eternità” e solo quinta e mai in lotta per la vittoria “La spada nel cuore”, grande delusione della finale. In fondo sono solo queste le canzoni da ricordare di questa deludente edizione…