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26 agosto 2008

Storia semiseria e disordinata della canzone italiana - 26 - Una falsa protesta a Sanremo

di Dario Cordovana



La prima serata della diciassettesima edizione del Festival di Sanremo, anno di (dis)grazia 1967, viene aperta da Giorgio Gaber che interpreta la sua canzone “E allora dai”, e viene chiusa da Dalida a cui è affidata la seconda esecuzione del brano “Ciao amore, ciao” di Luigi Tenco. Gaber esordisce declamando “Questa è una canzone di protesta, che non protesta contro nessuno, anzi siamo tutti d’accordo”; la sua canzone effettivamente non può certo mettere paura ai cosiddetti benpensanti, e la sua seconda esecuzione, affidata a Remo Germani, specializzato in canzoncine allegre ed orecchiabili, (“Baci”, “Non andare col tamburo” e “Così come viene” i suoi maggiori successi), la rende ancor più inoffensiva. E’ solo la prima di alcune canzoni che fingono semplicemente di portare a Sanremo temi legati ai problemi dell’attualità. In quella stessa serata Gianni Pettenati e Gene Pitney cantano “La rivoluzione”. Una rivoluzione a Sanremo? Ohibò, niente di tutto questo: Pettenati ci rassicura subito “nemmeno un cannone però sparerà”. La musica poi è un’inoffensiva marcetta beat.
Grande successo invece riscuote “Proposta” (non “Protesta”, solo “Proposta”, come chi alza il dito prima di parlare) per l’esecuzione della quale il gruppo dei Giganti si fa accompagnare solo dall’orchestra e si trasforma in un quartetto vocale. L’inizio è in effetti molto suggestivo e complesso e, rifacendosi al modo di urlare le notizie degli strilloni, prima di partire con un moderato tempo jazz, lancia un’inchiesta sui problemi dei giovani. I componenti del gruppo a questo punto si trasformano in tre giovani intervistati dal quarto componente, il basso Enrico Maria Papes. C’è la trovatina del verso iniziale della prima strofa cantato in dialetto milanese, come per dare un’autenticità maggiore alla cosa. Il giovane intervistato fa l’operaio e viene pagato poco, tuttavia non si lamenta dello scarso stipendio che non gli permette “di fare un ballo con lei”, né del lavoro che è di suo gradimento (in effetti chi non desidera lavorare la ghisa “per pochi denari”?); è che si aspettava qualcos’altro dalla sua gioventù. Cosa? Possiamo solo desumerlo dal ritornello che arriva implacabile: “Mettete dei fiori nei vostri cannoni/perché non vogliamo mai nel cielo/molecole malate ma note musicali che formino gli accordi per una ballata di pace”. Aaah, ecco dove volevano arrivare gli autori (Albula-G.B.Martelli, per la cronaca): la pace! Eh, certo come non capirlo dalla strofa?
Il secondo giovane è “un pittore che non vende quadri”, ma che dipinge solo l’amore che vede, praticamente un idealista che campa d’aria. Il terzo giovane intervistato mette invece l’accento sul confronto generazionale e sulla mancanza di dialogo tra genitori e figli; e qui viene fuori l’ipocrisia del mondo degli adulti: infatti il giovane, parlando del padre, dice: “Lui mette le mie camicie/ e poi mi critica se vesto così”. Il genitore ha anche procurato al figlio “un posto tranquillo”, ma lui ha rinunciato e vive la vita lontano da casa.
Come si vede problemi gravi affrontati da quattro ragazzi che almeno sono dei Giganti. Cosa avrebbero dovuto dire i tre irlandesi che hanno rieseguito il pezzo, The Bachelors, ovvero gli scapoli? Quelli, se poi non avevano in tasca la lira per potere fare un ballo con lei, erano probabilmente destinati a rimanere tali…

"Proposta" de I GIGANTI


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