King
di Andrea Basso Senior
King
era giunto a Palermo dall’America al seguito di un marinaio, dal quale, per
troppo amore, non era riuscito a separarsi.
Qui
aveva trovato alloggio in un appartamento a primo piano, che divideva, in buona armonia, con
Boby, volpino, anche se non volle mai ammetterlo, convinto come era di essere
di una razza superiore, e con Mausina, candida micia dagli occhi verdi, come
tutte le sue simili originarie dalla capitale turca. Questi lo avevano
preceduto dagli Stati Uniti, in occasione di altri viaggi del nostro marinaio.
Nello
stesso appartamento si erano sistemati anche alcuni pappagalli amazzonici ed
una scimmietta molto vivace, tanto che le due zie del marinaio, che
alloggiavano pure lì, cominciavano a prendere in seria considerazione
l’eventualità di trasferirsi loro in America. Ovviamente senza lo zoo.
Talvolta
succedeva che, passando dal corridoio, si vedeva dondolare il lampadario a
brindole del salotto buono, il che provocava un tuffo al cuore, memori degli
scanti presi per il recente terremoto; ma poi, constatato che gli altri
lampadari erano immobili, la zia, a denti stretti, diceva: “Corpurisali! Sta camurria ri scimia qualchi
vuota l’ammazzu”.
A
King, nessuno aveva mai detto di essere un feroce combattente, come tutti i
buldogs, e pertanto era buonissimo, tanto che i bambini gli facevano stramini
inimmaginabili, che lui sopportava con pazienza e compiacimento.
Ma
quando suonava la sirena succedeva un macello: la scimmia scorrazzava
nervosamente, i pappagalli volavano per tutta la casa, mentre King, piangendo
come solo lui sapeva piangere, si andava a mettere dietro la porta, e se non
gli si apriva prontamente, cominciava a rosicchiarsi quello che era rimasto dei
piedi del tavolo, facendosi pure la pipì addosso, specie se intanto si sentivano
cadere le bombe che, talvolta, arrivavano pure prima della sirena. Ed, in
effetti, le bombe si sentivano cadere, perché, nella loro discesa, producevano un sibilo terrificante.
Erano i tempi della guerra, iniziata il 10 giugno 1940.
Prudentemente,
le autorità di allora avevano fatto costruire i ricoveri antiaerei, ed uno di
questi fu realizzato nell’atrio della scuola “Ragusa Moleti”, nell’omonima via,
che serviva per tutto il rione. Erano indicati alla popolazione da frecce blu
stampate sui muri degli edifici, sulle quali spiccava, in bianco, la scritta “A
METRI 100 RICOVERO”, che si rivelò l’unica cosa ben fatta, tant’è vero che,
ancora oggi, se ne trovano diverse. Chi volesse constatare, può recarsi in Via
Trasselli, angolo C.so Calatafimi, lato monte, o in Via Rosario Salvo, ai due
angoli con Via Ragusa Moleti. Ma se ne trovano ancora in tutta la città.
All’atto
pratico, però, questi ricoveri ebbero una utilità soltanto psicologica, in
quanto tutti quelli colpiti dalle bombe, furono da queste perforati, ed i
rifugiati fecero la fine dei topi in trappola.
Vi
do, qui di seguito, alcuni brevi cenni sulla sirena.
Aveva
il compito di annunziare l’inizio e la fine dell’allarme aereo.
Come
sostantivo, aveva solo il singolare, perché interessava soltanto quella che si
sentiva, mentre non te ne fregava niente delle altre centinaia che erano sparse
per tutta la città.
La
nostra era ubicata sul tetto del Boccone del Povero, all’angolo tra Corso
Calatafimi e Via Pindemonte. Per sentire il suo suono, non era necessario farsi
legare all’albero maestro, come fu costretto a fare Ulisse, in quanto non era
per niente seducente, ma anzi procurava un senso di terrore. E poi, così
legati, non sarebbe stato molto agevole scappare verso il ricovero di cui
sopra, tenendosi la pancia con le due mani.
In
genere, si sentivano chiaramente sia i tre colpi di inizio allarme, che quello
che segnalava la fine.
Badate
bene, però, che quelli che non sentivano quest’ultimo colpo di sirena, non
andavano poi dall’otorino per farsi stuppari le orecchie, ma, a cura delle
autorità competenti, venivano scrupolosamente rubricati, ed il loro numero
complessivo giornaliero corrispondeva esattamente con quello delle vittime,
riportato l’indomani sui giornali, per i fini statistici.
Purtroppo,
nell’elenco di coloro che non sentirono la sirena di cessato allarme del 9
Maggio 1943, fu compreso anche il nome di Giuseppe Schiera, poeta palermitano
del tempo, che impersonava l’animo del popolo. Era mezzogiorno, e mentre
cercava di sottrarsi alle bombe che cadevano, attraversando la Via Perez per recarsi
nel ricovero che era nei pressi dell’omonima scuola, fu raggiunto alle spalle
da una micidiale scheggia.
Ma,
certamente, da allora, non sente più i morsi della fame, e continua a cantare i
suoi versi estemporanei, spartendo i suoi pizzini fra gli Angeli e i Santi
palermitani, che solo loro lo possono capire.
Che
si trovi fra gli Angeli, ne sono certo, poiché i suoi peccati li aveva già
scontati qui.
E
poi, a conti fatti, ne scontò più di quanti ne poté fare. E il resto mancia.
Oppure ce li facciamo scalare dai nostri. Manco per perderli.
Si può fare?
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