Ciccio
di Andrea Basso Sr.
Un mio amico era un tipo molto preciso. Non usciva mai di casa senza prima essersi allustratu le scarpe per benino ed essersi accuratamente pettinato. La barba l’aveva sempre fatta di fresco ed una particolare attenzione la rivolgeva verso le basette, che pretendeva che fossero sempre ben allineate ed ambedue della stessa precisa lunghezza. Ne aggiustava una e poi rifilava l’altra. Ed una volta, rifila questa e rifila quest’altra, finì che uscì di casa con le basette completamente azzerate. La camicia l’aveva sempre ben pulita e stirata, ma qualche volta capitò che se ne mettesse una in cui il colletto ed i polsini erano di colore diverso da tutto il resto, cosa che si notava, non avendo egli avuta l’accortezza di mettersi un pullover a girocollo. Che in quel periodo, dato che le economie delle nostre famiglie non erano molto floride, essendo da poco usciti dalla guerra, le nostre madri avevano escogitato il sistema di allungare la vita media delle camicie, sostituendo colletto e polsini logori con altri nuovi, che venivano confezionati, per la prima volta, usando un pezzo di stoffa ricavata accorciando posteriormente la camicia stessa, ed in seguito, invece, adoperando pezzi di altre camicie, che erano ormai irrecuperabili. In un taschino interno della giacca teneva sempre una carta da dieci lire, ben piegata. Era inspendibile. Quando eravamo a corto di picciuli, cioè sempre, cercavamo di convincerlo a tirarla fuori per pagarci i biglietti dell’arena, dove davano già dei bei films western o films sulle vittorie della marina americana. Ma non c’era verso di convincerlo, perché quella carta da dieci lire era una riserva che doveva servire nel caso in cui, per un malore improvviso, si sarebbe dovuto prendere una carrozza. Quando andavamo al Teatro Politeama, dove imperversavano le migliori compagnie del tempo, tipo Renato Rascel, Wanda Osiris, Totò, Carlo Dapporto, e cose del genere, davanti al botteghino affollato di gente che si accalcava alla rinfusa per fare i biglietti, dato che ancora non si usava fare la coda, disputavamo sulla opportunità di farci le poltrone o i posti in prima cavea. Ma i soldi non l’avevamo mai. E, nella migliore delle ipotesi, finiva che facevamo la seconda cavea, non essendoci una terza, diceva lui. Ai tempi in cui andavamo a scuola, in Via Pietro Novelli, ’nfacci alla Matrice, la mattina arrivavamo regolarmente con minimo dieci minuti di ritardo, trovando il portone già chiuso. Ma, forti del fatto di essere dei veterani, bussavamo, chiamando a voce alta: “Cocomero!!!!!!”, che così si chiamava il portiere, il quale pazientemente ci veniva ad aprire, esclamando in perfetta lingua madre: “Minchia, picciuotti, semu o suolitu? Quannu l’aviti a finiri?” Ma dopo, memore anche del fatto che ogni tanto gli offrivamo mezzo pane con panelle e rascature, di cui, da buon panormita, era molto ghiotto, taceva. E un bel giorno effettivamente la finimmo. E fu quando, a nostra insaputa e inspiegabilmente, ci diedero il diploma e così ci buttarono fuori.
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