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26 novembre 2010

I CONTORNI DEL VIGORELLI NELLA MIA MEMORIA DI BAMBINO (1956-1962) - Parte prima

di Sandro Mancini



Le bici, Maspes e Gaiardoni ...

Dall’età di 5 anni, fino al termine del liceo, ho abitato a Milano in via Savonarola, proprio di fronte al velodromo Vigorelli, e a fianco alla Porta Domodossola della Fiera Campionaria.  A una distanza di meno di un chilometro, subito dopo la mia scuola elementare, vi era in via Teodorico l’ingresso principale dello stabilimento Portello Sud dell’Alfa Romeo, la fabbrica storica dell’Alfa, in cui, tra l’altro, erano assemblate le scocche dei modelli coupé e spider che arrivavano dalla Pininfarina di Torino. Fuori dal nostro orizzonte spaziotemporale rimaneva la gloriosa Isotta Fraschini, già ubicata nella non lontana via Monte Rosa; anche se questa aveva cessato la produzione alla fine degli anni ’40, quindi in fondo da meno di 10 anni, per noi bimbi la sua grande storia apparteneva a un passato irrimediabilmente chiuso, che riemergeva però ogni volta che mio padre, guidando la Fiat 600, poi la 1100 e quindi la 1300, passava davanti alla fabbrica dismessa, e inevitabilmente indicava col dito, con aria mesta: “da qui uscivano le Isotta Fraschini!”.
Il lettore non pensi a luoghi lontani nello spazio e nel tempo, di difficile visualizzazione: egli vi si può ritrovare vedendo o rivedendo lo splendido film di Luchino Visconti “Rocco e i suoi fratelli”, del 1960: un classico romanzo di formazione intramato delle contraddizioni e del dolore che sovrabbondavano nell’epopea dell’emigrazione meridionale nel Nord Italia. Infatti tutti i luoghi finora menzionati si ritrovano in quel film, soprattutto la palestra di pugilato che era ubicata sotto le gradinate del Vigo, nel lato nord affacciato su via Arona, all’angolo con la curva ovest. Da lì uscirono grandi campioni italiani negli anni ’50 e ’60, che però io non ricordo, con l’eccezione di Duilio Loi, di cui rammento la camminata solitaria e risoluta, leggermente sbilanciata in avanti, con la sacca sulla spalla. Tuttavia non era la presenza rumorosa della palestra di pugilato a rendere straordinario il Vigo, per me e per i miei amici del mio cortile e di quello adiacente; nonostante che a ogni nostro giro in bici del larghissimo marciapiede che circondava il Vigo ritornasse alle nostre orecchie il suono dei pungiball, sordo e meccanicamente ritmico, anch’esso impresso nel film di Visconti. Noi bimbi della combriccola infatti eravamo indifferenti alla boxe, mentre palpitavamo per il ciclismo, e il Vigo ne era il tempio: vessillo non solo del ciclismo su pista (insieme al vicino Palazzetto dello Sport della Fiera, in piazza Sei Febbraio (distante non più di 400 metri), dove si teneva la “sei giorni”, ma anche del ciclismo su strada, perché proprio al Vigo terminava ogni anno il Giro d’Italia, con il giro di pista del vincitore in trionfo, tutti i corridori al seguito e le tribune in ovazione.
Per il gruppo di bimbi di cui facevo parte, il Vigo era di gran lunga il centro gravitazionale delle nostre fantasie, e anche un luogo di preziose esperienze. Uno dei magazzini posti sotto le gradinate era adibito a deposito dei mezzi ciclabili per la raccolta dei rifiuti. Talvolta era socchiuso; allora entravamo e ci mettevamo a giocare coi numerosi gatti che vi vivevano, ammirando anche vecchie attrezzature in disuso ivi depositate, soprattutto carri una volta trainati dai cavalli. Ma la principale esperienza era la quasi quotidiana corsa che, eccetto i periodi più rigidi dell’inverno, si svolgeva tra noi sul largo marciapiede  che si restringeva solo sulla curva ovest, obbligandoci a una frenata al termine del rettilineo di via Arona, proprio davanti alla palestra di boxe; ciò  procurò una volta a uno di noi, Danilo, una spettacolare caduta (ero molto legato a Danilo; gli altri proseguirono e io lo accompagnai a casa). A volte si correva a squadre, a volte no, ma sempre la ‘gara’ iniziava col difficile e impegnativo surplace, nell’arte del quale alla fine delle elementari eravamo  un po’ tutti diventati abbastanza bravi, o almeno così ci pareva, da piccoli guasconi che eravamo.
A metà della curva ovest sorgeva, e vi è ancora operativa, la bottega di Faliero Masi, che fabbricava i telai sia delle bici da pista, sia di quelle stradali. Il nome di Masi è rimasto legato a quello di Maspes, cui forniva appunto le bici dei suoi strepitosi successi; nella mia memoria, però, è legato a Bartali, che ormai ritiratosi dalle corse, continuava a ordinare a Masi le sue biciclette; le provava intorno al Vigo e al parcheggio antistante.
Quando eravamo più grandicelli, nel periodo delle scuole medie (1963-65),  avevamo lasciato il marciapiede per la strada (ormai la ‘gara’ comprendeva anche la salita; si partiva dal Vigo e si arrivava, 2 km dopo, alla cima della montagnetta di San Siro, il terroso “Monte Stella”, dopo aver costeggiato il galoppatoio di San Siro in via Diomede). Ma se vedevamo Bartali da Masi, lo aspettavamo e quando usciva dalla bottega per il collaudo ci mettevamo al suo seguito; lui non si curava mai di noi, e non ci dava la soddisfazione di allungare la pedalata per staccarci. Del resto ci aveva ignorato per tutto il periodo delle elementari, quando entravamo nella piccola bottega-officina di Masi per vederlo da vicino. A noi tutto ciò pareva naturale, perché Bartali era una sorta di semidio, non apparteneva al mondo comune di noi terrestri. Masi sì, ed era buono con noi: ci lasciava entrare, pur essendo un piccolo locale pieno di tante cose, mentre Bartali neppure si girava. Nella contesa tra Bartali e Coppi, che perdurava anche dopo la morte del secondo nel gennaio ’60, eravamo tutti dalla parte del primo; anche ora sono ben contento di girare per Milano su una vecchia “Bartali” nera coi freni a bacchetta.
Il Vigo, dicevo, era per me lo spazio non inavvicinabile dei miti, degli eroi e della gloria. Le nostre fantasie si catalizzavano sulla grandiosa pista di legno, dalle curve paraboliche ripide. L’ingresso unico, alla pista e alle gradinate, era quasi sempre chiuso, ma se nei nostri giri esterni, lungo i marciapiedi, incrociavamo il custode nell’atto di aprirlo o chiuderlo, non ci facevamo sfuggire il tentativo di assistere agli allenamenti. La richiesta generalmente era rifiutata, ma non sempre; qualche volta il custode ci faceva entrare, visto che ci conosceva bene e sapeva che non facevamo danni né confusione. Lasciavamo all’ingresso le nostre biciclettine e poi biciclette (io ebbi dapprima un’Atala rossa, con la ruota da 16 pollici, poi una Doniselli verde da 22”,  infine, al termine della prima media, un’altra Doniselli da 26”,  grigia, provvista di cambio Campagnolo a 4 rapporti – le Doniselli venivano fabbricate nella vicina via Procaccini, sempre in zona Sempione). Varcato il cancello, erano tutte per noi le gradinate vuote (il velodromo ha più di 7-8000 posti a sedere, o forse più, se non ricordo male), come pure lo spettacolo emozionante degli allenamenti: spesso trovavamo i corridori attaccati alla ruota delle rumorose e strane motociclette dai lunghi manubri, qualche volta anche li coglievamo nell’addestamento al surplace. Poiché le biciclette del ciclismo su pista erano e sono rimaste a scatto fisso, per fermarsi gli atleti rallentavano fino al punto in cui un allenatore li afferrava per il braccio, e così essi potevano scendere. Era il momento in cui i nostri eroi si palesavano nella loro fragilità. Il fatto poi che i pistard fossero già allora per lo più sconosciuti al gran pubblico, eccetto i due grandi campioni, Antonio Maspes – il re del Vigo - e Sante Gaiardoni (ricordo la celebre sfida del ’62, l’anno in cui ho finito le elementari), ce li faceva amare ancor di più.
Maspes veniva generalmente identificato a Milano col Vigo, ma ciò non comportava che fossimo tutti suoi tifosi: la piccola combriccola era equamente divisa nel tifo tra il re Antonio e l’antagonista Sante, e io ero risolutamente dalla parte di Gaiardoni. Più tardi, nel 1964 o ’65, io e l’amico Pino un pomeriggio estivo ci stavamo riposavando dalla nostra corsa, ancora in sella alle bici, appoggiati alle transenne fisse davanti a una delle biglietterie chiuse: sentendoci parlare animatamente di Gaiardoni, un giornalista e un fotografo si fermarono a parlare con noi e ci offrirono una sigaretta a testa, accendendocela pure, il che mi procurò un’emozione, che però ho rimosso, avendo rotto i ponti col fumo fin dall’adolescenza. Nei giorni seguenti un settimanale di cronaca (forse Stop, oppure un rotocalco similare), di cui non ricordo più il nome, anche se per tanti anni ho conservato la pagina, pubblicò su un’intera pagina un articolo sui giovani tifosi di Gaiardoni , con la nostra foto e le nostre interviste sul grande Sante.
In seguito mi sono interrogato sulla mia antipatia per Maspes, e ho trovato quanto segue. Maspes si atteggiava sempre a vincitore, di questo me ne rendevo ben conto: nel portamento signorilmente distaccato, negli abiti eleganti, nelle belle donne che lo accompagnavano, soprattutto nelle auto sportive che cambiava di frequente, e di cui faceva elaborare il motore dall’ex pilota Rinaldo Tinarelli. Maspes, cui evidentemente piaceva spendere a piene mani, prediligeva i modelli appena entrati in produzione; ricordo ancora la sua Giulia berlina in alluminio, ‘nuova di pacca’ (così si dice a Milano), con la calandra che sarà subito adottata dalle Giulia in dotazione alla Polizia e ai Carabinieri. L’Alfa passerà poi a fabbricare la versione in alluminio della Giulia GT (la gloriosa GTA), e cesserà l’esigua produzione della omologa berlina. Di contro Gaiardoni, che vedevamo meno frequentemente, e solo nell’entrare e uscire dal Vigo, rimane nel mio ricordo per il suo viso aperto, per i modi bonari e schietti, da gran lavoratore che va diritto al sodo e a cui, en passant, capita anche di incamerare una vittoria sportiva. Ritiratosi dalle corse, Gaiardoni aprirà un negozio di vendita e riparazione cicli in via Giambellino, e io sono stato suo cliente fino alla cessione della sua attività commerciale; continuo comunque a servirmi del nuovo ciclista, perché ha mantenuto l’antica insegna. (continua)

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Egr. sig. Umbro,
La ringrazio per la sua attenzione al mio ricordo di Rinaldo Tinarelli e della sua officina al Vigorelli. Purtroppo non ho fotografie, ma solo i ricordi di bambino e di adolescente che ho raccolto in questo breve scritto, e nella seconda parte che potrà presto leggere su questo stesso sito. L'impressione, mia e dei miei compagni, lo ripeto, è che anche se ci trattava bruscamente, quando sfrecciavamo con le nostre bici tra le prestigiose auto dei suoi clienti ferme sul grande marciapiede, in fondo non gli davamo veramente fastidio, e forse anzi gli faceva anche piacere. Era una persona in gamba e simpatica; questo lo capivamo, anche se eravamo piccoli. Se vuole, posso aggiungere un altro flash della mia memoria. Lui, chino sui grandi cofani aperti, all'ascolto dei motori rombanti, con l'aiutante che schiacciava l'acceleratore. Evidentemente aveva l'orecchio fino nell'ascolto dei motori.
Cordialmente
Sandro Mancini

Sandro Mancini

01/12/2010 00:35:04


Buonasera, con il Club di cui sono Presidente ed il Comune di Amelia (TR), stiamo realizzando una pubblicazione del nostro pilota concittadino RINALDO TINARELLI, avete materiale, foto eccc... riguardanti lui o sapete darci indicazione ? Ringrazio anticipatamente per l'attenzione prestata. Saluti Cordiali.
Umbro P.

umbro

29/11/2010 20:55:12


 
 

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