I CONTORNI DEL VIGORELLI NELLA MIA MEMORIA DI BAMBINO (1956-1962) - Parte seconda
di Sandro Mancini
Le auto, Alfa Romeo e Lancia ...
Poc’anzi ho menzionato la figura di Rinaldo Tinarelli, che fu per noi bimbi fondamentale, e forse non solo per noi, visto che era chiamato da tutti ‘il mago’; mago dei motori, s’intende’, ma forse anche dei telai, visto che nel 1955 produsse un’auto da corsa in un unico esemplare: una Lancia Aurelia B20 per la gara delle Millemiglia. Se il Vigo è impresso nella mia mente, lo è per lui non meno che per Gaiardoni, Masi e Bartali. Il ‘mago’ aveva la sua grande officina sotto le gradinate del lato sud, che si affacciava nella stessa via Savonarola in cui abitavo. Il marciapiede dinanzi all’officina era adornato delle auto sportive riparate o in attesa di intervento meccanico; di tanto in tanto c’era anche qualche motoscafo da competizione. Tra l’una e l’altra c’era lo spazio sufficiente perché noi ci si potesse infilare a tutto gas, senza rallentare il ritmo delle pedalate. I meccanici, se si trovavano sul posto, ci inveivano dietro, e ogni tanto lo stesso Tinarelli, che seppur di vista ci conosceva bene, uno per uno, ci rivolgeva il motto che a Milano si indirizzava e si rivolge tuttora ai fanciulli, per indicare di togliersi dai piedi: “Va’ a lavurà, lazarùn!”. Da grande, ripensandoci, mi sono stupito che ‘il mago’ non ci abbia mai bloccati e sgridati. Forse il ‘Tina” non era solo un tipo rude e simpatico, forse gli piacevano i bambini e magari gli dava allegria il nostro sgambettare vociante. Del resto, non facemmo mai danni alle strepitose vetture che contorniavano l’officina. Me le ricordo nitidamente, nuove e splendenti: Ferrari, Maserati e Iso Rivolta in tutti i modelli. Nel mio ricordo seguono le Lancia (Aurelia e Appia, quindi Flaminia e Flavia, carrozzate da Pinifarina, Vignale e Touring); a seguire le Alfa (la 1900, la prima del dopoguerra, poi la Giulietta spider e sprint, quindi la 2000 / 2600, sempre spider e sprint e versioni speciali, infine la Giulia berlina in alluminio); da ultimo le straniere, che per noi erano comunque auto inferiori, ad eccezione delle britanniche, giudicate alla pari: le britanniche Aston Martin, Jaguar, Austin Healey, la MG tipo A (quella del concorso annuale della brillantina Brill Cream – più tardi arriverà la strepitosa B, per me il vertice dello stile britannico, un equilibrio quasi perfetto e ancor oggi ineguagliato di sobrietà ed eleganza, non incrinato dal delizioso pizzico dato dal parabrezza rétro) e la Triumph TR 3 (quella di Maiostranni ne “La dolce vita”), erede dell’altrettanto bella TR 2; la francese Facel Vega cabriolet; le tedesche, anzitutto con la Porsche 1600, dalle linee originalmente bombate, a mio parere più bella della successiva serie 911, poi con le Mercedes 190 roadster (anch’essa bellissima) e l’avveniristica 300 roadster, infine la rara BMW 507 roadster. Come se ciò non bastasse, a farci impregnare dal design automobilistilistico degli anni ‘50, nei due nuovi condominii di via Savonarola, al num. 19 e 21, accomunati dall’unico cortile, abitavamo alcuni appassionati di auto. Ovviamente le tenevano in box, ma parcheggiavano di giorno sotto casa, eccetto il periodo caotico della Fiera Campionaria, dove il traffico e le condizioni di parcheggio erano ancora peggiori di quelle attuali. Ricordo una rara ammiraglia BMW berlina color panna, dalle linee degli anni ’40, una Jauguar E azzurro metallizzato, proprietà di un ex pugile; vi era poi, posseduta dall’ing. L., nostro vicino di pianerottolo e dinamico industriale dal piglio energico ed energetico, una Flaminia grigia e blu prima versione, con i tergicristalli sul lunotto posteriore. L’ing. L. negli anni seguenti ebbe delle Ferrari e anche una Miura Lamborghini bianca (la seconda auto di casa, guidata dalla moglie, era una Fiat 1500). Tra queste belle macchine, la mia simpatia si dirigeva alla Appia prima serie, color marrone, del dott. Grasso, siciliano come la moglie. Le due figlie non ci frequentavano, perché un po’ più grandi di noi. Il dott. Grasso era sempre elegante e impeccabile, col borsalino e il completo; ai nostri occhi veniva da un altro mondo, distante non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Ripensandolo oggi, mi appare un testimone della parte migliore dell’Italia e della Palermo che fu. La sua Appia, a due porte e con la coda inclinata, che forse era dotata di guida a destra, era targata Palermo. A noi stupiva il numero della targa (poco superiore ai 20.000, ma ricordo solo lo spazio vuoto dopo la sigla PA e quindi la cifra 2). Infatti la numerazione a Milano aveva raggiunto la cifra di 250.000 all’inizio degli anni ’50, per passare a 600.000 all’inizio del decennio successivo e raggiungere il milione (l’attesa lettera A al posto del 9) nel 1965. Per questo ci eravamo fatti l’idea che Palermo fosse una città molto piccola, ma il nostro comune interesse per la Geografia (detto davvero, senza ironia!) mise le cose a posto nella nostra mente in terza elementare: ci sfidavamo nella gara a ricordare la superficie delle regioni e il numero degli abitanti, delle regioni e dei loro capoluoghi. L’elenco si completa con l’Appia grigia seconda serie, sostituita da un’altra, altrettanto grigia, della terza e ultima serie, del geometra costruttore dei due immobili, il sig. F., e infine con la Giulietta berlina del caro ingegner Mario Z. (padre di Sergio, uno della combriccola, che li aveva progettati), che poi passò alla Fulvia. Il mio cruccio era che mio padre. che peraltro l’auto utilizzava pochissimo, dal momento che lavorava alla Michelin di c.so Sempione, a circa 500 metri da casa, non si decideva a disfarsi della 1100, di un marrone sbiadito e tristanzuolo, veramente deprimente, e passare all’Appia terza serie o alla Giulietta ti. Proprio il fatto che tirasse fuori la 1100 dal garage di via Giovanni da Procida solo nel fine settimana, rendeva ai miei occhi indispensabile il festeggiare adeguatamente l’avvenimento atteso. Invece per lui e per mia madre erano soldi buttati. Il compromesso, che pose fine a una delle mie prime grandi battaglie all’inizio della seconda media, determinò l’acquisto della Fiat 1300: mia madre voleva che si cambiasse la vecchia 1100 con la nuova 1100 D, dal muso orribile, che per fortuna non piaceva neppure a mio padre; io lottavo per la Giulietta o la Fulvia, e così mio padre scelse saggiamente la via di mezzo. Ma torniamo all’officina di Tinarelli. Ora, posti a contatto diretto con tali capolavori della meccanica e del design automobilistico, come avremmo potuto, noi bimbi della compagnia, non esserne tutti influenzati in profondità? Così, grazie al mago del Vigo, il grande ‘Tina’, il mio immaginario è rimasto per sempre segnato dalle automobili, da noi possedute nei modellini statici Dinky e Corgi Toys (inglesi), Solido (francese) e Mercury (italiana). Nei pomeriggi piovosi ci rintanavamo nel box del papà di Sergio, nel comune cortile di via Savonarola. Lì, quando non giocavamo al trenino col plastico Rivarossi (chiamavamo il nonno per tirare giù la ribaltina: l’ing. Mario arrivava alla sera con la sua elegante Giulietta color indaco, sempre pulita; ma la sua prima macchina che ricordo è una Fiat 1100 bicolore), tiravamo fuori le nostre macchinine e davamo corso alle nostre fantasie. Ciascuno dei membri storici del gruppo ristretto (Sergio, Pino, Danilo e io) si metteva idealmente al volante di uno dei suoi modelli preferiti, e così prendevano forma le nostre avventure. Le mie si svolgevano a bordo di una Maserati 3500 GT blu scura, oppure di un’Aurelia coupé grigio metallizzata, tendente al verde, o anche di un’Aurelia spider rossa, di una MG A con le ruote a raggi, di una Jaguar berlina grigia metallizzata, di un’Alfa 2000 coupé Pininfarina color crema, senza però disdegnare le più comuni, ma pur sempre elegantissime, Appia seconda serie in tutte le tinte pastello, la Giulietta Spider Pinifarina (color rosso) e Sprint Bertone (in un blu particolare); ogni tanto sceglievo la Flaminia coupé Pinifarina (sempre metallizata grigio-verde) o quella spider Touring, di color bianco. Sono queste, e poche altre tra quelle che sono seguite, le auto della mia vita: splendide mi parevano allora, splendide mi paiono ancora oggi. Ce n’era abbastanza, ma non bastava ancora! Dal vicino Portello uscivano i prototipi, a volte cammuffati a volte no, delle nuove Alfa in attesa di entrare in produzione. I meccanici ogni tanto si fermavano da Tinarelli, e scambiavano qualche chiacchiera. Così ho visto tutte le pre-serie della storia dell’Alfa, dal 1956 al 1977 (nel ’70 la mia famiglia aveva traslocato in una casa ancor più vicina all’Alfa, a meno di 200 metri da via Traiano). Fin da piccolo conoscevo la celebre frase che ripeteva Henry Ford negli anni ’30 in America: “Quando vedo passare un’Alfa, mi tolgo il cappello”. Essere contigui alla sua storia ci inorgogliva. Inoltre Sergio e io imparammo precocemente l’arte della guida sulla docile Giulietta berlina del padre (non la ‘ti’, cioè ‘turismo internazionale’, ma la versione base, a 4 marce e carburatori monocorpo), in seconda media; mi ricordo come mi piaceva il suo cruscotto! Andavamo avanti e indietro per il cortile, inserendo la prima, la seconda e la retromarcia (il cambio era al volante; solo l’ultima serie della ‘ti’ ebbe il cambio a cloche). Facevamo la gara a chi si fermava più vicino al muro, e non abbiamo mai fatto un graffio (non ricordo neppure grandi sgrattate). L’ing. Mario del resto lo sapeva, altrimenti avrebbe tolto le chiavi dal box . (continua)
Lancia Appia I serie
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