Don Turiddu
di Andrea Basso Sr.
Ogni mattina, alle sette, arrivava con tutta la sua attrezzatura, e si posteggiava nel quadrivio sotto casa nostra.
L’attrezzatura era formata da un bel carretto, affrescato con splendide scene di battaglia dei paladini di Francia, di quelli che ormai si vedono solo nelle sfilate folcloristiche, trainato da un aitante mulo, ben bardato. Sul carro, aveva preso posto un ragazzino, che era il figlio del Don, e gli dava una mano nel lavoro. Dietro il carretto erano legate due mucche, con relativi vitellini, nonché due caprette.
Quindi Don Turiddu iniziava la sua attività di vendita del latte al dettaglio, porta a porta, direttamente dal produttore al consumatore, alla vista di tutti, e quindi senza timore che il latte potesse essere stato annacquato, perché quello era, munto direttamente dalla minna della mucca.
Le signore, dal balcone, gli calavano u panaru, con dentro la lattiera e relativa controparte in denaro contante, che il bancomat non veniva ancora accettato.
Quindi, usando il viva voce, che lo sentiva tutta la strada, la committente comunicava la quantità di latte desiderato, e Don Turiddu, solertemente, eseguiva l’ordine, collaborato dal figlio, che suo padre lo faceva filare dritto, senza tentennamenti. Don Turiddu il latte lo mungeva direttamente dentro la lattiera, regolandosi ad occhio per la quantità.
Il latte delle caprette, che notoriamente è più leggero di quello di mucca, veniva fornito, su specifica richiesta, per i clienti a cui quello di mucca risultava ‘nchiummusu. Ma il prezzo, ovviamente, era diverso.
Ogni tanto, succedeva qualche animata discussione, al limite della sciarra, causata dal fatto che qualcuno si lamentava che il latte gli era stato fornito senza che prima avesse succhiato il vitello. E’ noto, infatti, a chi lo sa, che il primo latte della mucca è sempre più annacquato, e quindi, a garanzia del compratore, veniva fatto succhiare dal vitellino, che quello gli spettava, per esigenze di mercato. Però, a fine servizio, quello che restava, se ne restava, se lo pappava tutto lui, che bello denso lo trovava.
Mamma questo latte lo faceva bollire, visto che non era stata bollita, in precedenza, né la minna della mucca, né le mani di Don Turiddu.
Ma a mio fratello il latte bollito non andava giù, perché diceva che cambiava sapore, che era vero. Però, per ben due volte, si buscò l’afta, che era peggio del latte bollito. E questa era la prova evidente che il latte bisognava farlo bollire. Ma lui il vizio non se lo tolse lo stesso, e continuò a prenderselo non bollito.
Quindi, mia madre, dopo avere aggiunto un po’ di zucchero, ce lo serviva in una tazza, in cui noi sminuzzavamo una buona quantità di pane, rimasto dalla cena della sera avanti. Che allora non si usavano fette biscottate, biscotti, merendine e cose varie del genere, di cui si sconosceva l’esistenza.
E durante la guerra, che lo zucchero raramente si trovava, se non a suon di soldi, di contrabbando, che avrebbero dovuto distribuirlo con le tessere annonarie, ma ciò non avveniva mai, lo zuccheravamo con il miele di carruba, che per sciogliersi nel latte ci voleva mezz’ora.
Conclusa la sua opera socio-commerciale, Don Turiddu se ne tornava, con tutto il suo armamentario, da dove era venuto.
Sul luogo dove si era posteggiato Don Turiddu, naturalmente, restavano ben evidenti le tracce, lasciate degli animali che, intanto, avevano provveduto ai loro bisogni corporali, liquidi e solidi. In bella vista, su di tutti, spiccavano quelli solidi delle mucche, che, come è noto, non lasciano punti a nessuno, per la loro quantità.
E, quando pioveva, si lavava tutto, mentre quando c’era il sole si asciugava tutto.
Non so se Don Turiddu avesse la licenza di vendita al dettaglio, come ambulante, e la partita IVA, ma non credo proprio.
Certo, oggi il mercato si è evoluto, ed entrando in un supermercato, trovi latte in bottiglia, in cartone, intero, parzialmente scremato, scremato, ad alta digeribilità, e così via.
Ma allora di latte ce n’era un solo tipo, oltre quello particolare delle caprette, che la minna solo una era.
O due? O quattro?
Non l’ho mai capito. E resterò sempre con questo dubbio.
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