Enzi Panettì
di Andrea Basso Sr.
Durante il ventennio, i nomi dei vari sport vennero italianizzati. E così c’era la palla ovale, la palla a canestro, la palla a volo, il calcio, e così via. Ma dopo, ogni sport riprese il suo nome originale. E così rispuntò il Rugby, il Basket, il Volley. Ma il calcio non si richiamò Football, come era il suo nome originario, ma restò calcio. Noi ragazzi, quando fummo in età di farlo, cominciammo a giocarci, che era lo sport più economico, in quanto bastava un ampio spazio, un paio di scarpe da scassare ed un pallone. Il piazzale era facilmente reperibile, in quanto auto non ne passavano, che se ne vedeva una ogni tanto, dei militari. Le scarpe da scassare si trovavano, con grande disappunto dei nostri genitori. L’unico vero problema era il pallone. Ma, facendo una colletta, si riusciva a comprarlo. I ragazzi più grandi, che ci insegnarono, sommariamente, le regole del gioco, ce le insegnarono in inglese, ovviamente adattato alla nostra lingua madre. E così sapemmo che, quando la palla andava in fallo laterale, si diceva avutu. Chiara storpiatura del termine inglese out. E si distingueva in avutu nuostru e avutu vuostru, in quanto, mancando l’arbitro, dovevamo precisarlo noi stessi. Il fuori gioco si chiamava ossardu, e penso che la prima parte della parola si doveva riferire al termine inglese off ma il resto non lo so, forse da side, mentre il fallo di mano si chiamava enzi, troppo chiaramente derivante dall’inglese hands. E se si verificava in area di rigore, diventava Enzi Panettì, dove panettì stava per penalty. Il calcio di punizione era detto Frichicchiu, dall’inglese Free Kick. Il calcio d’angolo Corner, termine che ancora oggi, talvolta, viene usato. Il nostro campo di calcio non è che fosse il massimo, ma ci si adattava. Era chiamato Pruaiba , dal nome di una vecchia squadra di calcio un tempo lì esistente che si chiamava “Pro Alba”. C’era, al centro, il palo di un lampione della pubblica illuminazione e bisognava stare attenti a non finirci sopra, con le conseguenze facilmente immaginabili. Però il campo illuminato per la notturna, a Palermo, non esisteva nemmeno alla “Favorita”, e ci permetteva di giocare fino a sera inoltrata. E di ciò ne andavamo fieri. Questo campo da un lato era più stretto, per cui era impossibile battere i calci d’angolo. Ed allora, per convenzione tacita, ma accettata da tutti, vigeva la regola “Ogni tre corner un rigore”. Ma l’inconveniente maggiore di questa benedetto campo era che limitava con un campo di fichidindia, per cui, quando il pallone finiva al di la del muro, si bucava. Ed allora bisognava andare in bicicletta in Via Divisi, fare riparare la camera d’aria, o, se i buchi erano troppi, comprarne una nuova, avendo i picciuli, e tornare al campo. Quindi uscire il copertone dentro fuori, per eliminare tutte le spine rimaste dentro, rigonfiare il pallone, che la pompa l’avevamo sempre appresso, e quindi riprendere il gioco. Ma per fare queste operazioni eravamo molto pratici ed allenati, e riuscivamo a fare il tutto nel giro di quindici minuti, massimo trenta, a secondo i casi. I preliminari della partita consistevano principalmente nella spaiuta dei giocatori. I due capitani, che erano i giocatori considerati più bravi, a pari e dispari, si sceglievano il primo giocatore, e poi, alternativamente, tutti gli altri. I giocatori prescelti uscivano dal gruppo anonimo ed andavano a mettersi dietro il loro capitano. Quando i giocatori erano in numero dispari, quello rimasto, che chiaramente era il più scarso, se lo spaievano i capitani, in quanto tutti dovevamo giocare. La posta in gioco era una aranciata in due. Ma quando eravamo scarsi a denari, praticamente quasi sempre, a fine partita c’era acqua fresca per tutti, prelevabile gratuitamente dalla fontanella, che, per grazia del sindaco, che allora si chiamava podestà, era esistente ai bordi del campo. Ma, malgrado tutte queste difficoltà, ci divertivamo lo stesso, e giocavamo fino a sera inoltrata, grazie al lampione di cui sopra. Ma i compiti per la scuola quando ce li facevamo? Non ricordo proprio.
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