Quando c'era lui ...
di Andrea Basso Sr.
Alt! Non vi allarmate. Non sto facendo l’apologia del fascismo, ma solo cercando di introdurre il racconto dei miei ricordi di quel tempo. Per quelli che mi sono rimasti.
La prima tessera del partito me la rilasciarono nel 1938 e siccome sono del 1932 avevo la bella età di sei anni. E per dimostrarvi che non vi racconto fesserie, la suddetta tessera ve la mostro in calce: Avevo già giurato di eseguire gli ordini del Duce.
Ero Figlio della Lupa. L’anno seguente divenni Balilla. Poi, al ginnasio, si diventava Balilla Moschettiere, quindi Avanguardista e all’Università Giovane fascista. Nello stabile in cui abitavamo noi, venne ad abitarci un signore, che era Console della Milizia Fasciata, grado corrispondente a Colonnello del Regio Esercito. La mattina, verso l’ora in cui andavamo a scuola, usciva con la divisa di gerarca, e si recava in Corso Vittorio Emanuele, dove nel Palazzo Riso, all’altezza di Piazza Bologni, aveva sede la Casa del Fascio, e vi risiedeva il Federale, che dirigeva, a livello provinciale, i Fasci di Combattimento, e tutti i gerarchi.
Poiché la statua di Carlo Quinto, che era nella suddetta piazza, dove si trova ancora oggi, dava fastidio, in quanto, ogni sabato, che era il sabato fascista, si facevano le adunate delle camice nere ed il Federale o il Gerarca di turno si affacciavano per arringare il popolo, questa statua fu fatta arretrare in fondo alla piazza. Ma, dopo la caduta del fascismo, Carlo Quinto si riprese il suo posto.
Ma già Giuseppe Schiera, poeta popolare palermitano, aveva capito tutto. E per le strade della città, declamava: “Stu duci nni cunnuci contru un palu di la luci” “Ri iornu manca u pani e a sira arrivanu l’aroplani” “Quannu u re era re mancava u cafè, ora che mpiraturi nni manca u caliuturi, e si pigghiamu n’avutru statu nni manca puru u surrogatu”.
La mattina, a scuola, dalla prima elementare in poi, la giornata si svolgeva nel modo seguente:
Quando entrava la maestra, tutti ci alzavamo in piedi e il capo classe, il bacchettone che era ritenuto il più bravo, o che era figlio del gerarca di turno, e si sedeva al primo banco presso la porta d’ingresso, faceva il saluto fascista. Quindi si cantava la “Marcia Reale” e “Giovinezza”, che era l’inno dei giovani fascisti. I suddetti canti si concludevano con le seguenti frasi, sempre cantate: “E per Vittorio Emanuele eia eia alalà, E per Benito Mussolini eia eia alalà”. Non mi chiedete che cosa significasse perché non lo so. Forse era un’acclamazione. Tipo “Ip Ip Urrà”. Quindi, fatto il segno della croce e recitato un Padrenostro, si poteva iniziare la santa giornata.
Un paio di volte l’anno veniva un tizio, che suppongo fosse un ufficiale sanitario, per quelli che dovevano essere i controlli medici di rito, che si concretizzavano in quanto segue.
La maestra ci diceva: “ Ragazzi, mettete le mani sul banco con le dita divaricate”. A questo punto quel tizio passava tra i banchi, ci guardava le mani e quindi ci cercava sommariamente fra i capelli, per accertarsi se avessimo i pidocchi. Fine della trasmissione. Mia madre dopo mi spiegò che la guardata fra le dita delle mani aveva lo scopo di accertare se avessimo contratto la scabbia, perché era proprio li che si andava ad annidare.
Ogni mattina, alle dieci in punto, facevano la prova delle sirene che annunziavano l’allarme aereo. Ma non si poteva equivocare, perché suonava una volta sola, mentre quando segnalava l’inizio dell’allarme, suonava tre volte. E quando finiva l’allarme suonava una volta.
Allora, tutti in fila per due, guidati dalla maestra, ci portavano nel ricovero antiaereo, che avevano allestito nel giardino della scuola. Ogni classe aveva i posti assegnati, e non si poteva sbagliare. Finita l’operazione, ci riportavano in classe. Questi ricoveri erano accessibili alla popolazione, ma non per le prove.
Il sabato, che era detto il sabato fascista, bisognava andarci con la divisa di Balilla: Camicia nera, pantaloni grigio militare, fazzoletto azzurro annodato sul collo e fez nero, con giummu pure nero. Ma a quelli che non l’avevano non dicevano niente. Che tanti ragazzi non si mettevano nemmeno il grembiule nero, perché non si potevano permettere di comprarlo. E, a proposito del grembiule, ricordo che sul petto c’era attaccata una bandierina tricolore, con la scritta ”Vincere e Vinceremo”
Ma poi non finì proprio così.
|