Birimbo Birambo
di Andrea Basso Sr.
Quando gli americani intensificarono i bombardamenti aerei su Palermo, in preparazione dello sbarco che poi fecero a Gela, nel luglio del 1943, le scuole furono chiuse anticipatamente, a febbraio. E ci mandarono tutti a casa a goderci le bombe in santa pace. Certo, chi poteva, cercava di scansarsele e fu così che nacque lo sfollamento. E chi non poteva, pazienza. Vuol dire che intensificava le preghiere. Ma non è che queste precauzioni funzionassero sempre. Noi sfollammo, in prima battuta, a Capaci, in una casa vicino al mare, dove oggi passa l’autostrada per Punta Raisi. Più che una casa, in verità, era un magazzino agricolo, opportunamente adattato alla meglio. Venne un carretto e ci portò dalla nostra casa di Palermo quello che poteva: tavuli, trispita, materassi, un baule di biancheria, qualche pentola e poco altro. A noi quello stare in campagna a primavera sembrava più che altro una villeggiatura. Ma ben presto ci rendemmo conto che non era proprio così. E successe quando una mattina passarono alcuni marinai, di quelli che erano addetti al controllo delle coste, e vedemmo due di loro che portavano a spalla, uno da una punta e l’altro dall’altra, un paletto di legno, al quale era stato legato un telo. Ci dissero che dentro c’era quel che era rimasto di uno sfortunato marinaio a cui avevano silurato la nave e che la risacca aveva depositato, pietosamente, sulla battigia. Poi mio padre trovò una casa a Carini e decise che era meglio che ci trasferissimo lì. Con mio fratello, che era meglio uscire in due, ogni mattina andavamo a fare la coda al panificio, che era sul corso principale, nei pressi della piazza, per prendere il pane che ci davano con le tessere annonarie. Era prudente andarci di buon ora, perché quando il pane finiva, finiva per tutti e non c’era coda che teneva. Ci dicevano solo che di farina avevano ricevuto solo quella ed era già finita. Mia madre le tessere le consegnava a mio fratello, dato che, già allora, aveva qualche anno in più di me, e questo vantaggio riesce a conservarlo tutt’oggi. E quindi dava più affidamento. A me il fatto dava non poco fastidio, ma comunque non potevo fare altro che accettare quella situazione. E affidandogli le preziose tessere, gli ripeteva la solita frase: “Accura, ‘un ni pierdire, ca arristamu tutti riuni.” Il pane era fatto con farina di segala ed aveva alcune caratteristiche qualificanti: era di un colore molto scuro, sul marroncino, poco gradevole alla vista, ma in compenso, faceva cattivo odore. Quando era caldo, la mollica non si poteva mangiare perché appiccicava in bocca e noi la usavamo per fare i pupetti e le palline; quando invece si raffreddava diventava duro come le corna. Mia madre non voleva che ci facessimo i pupetti e le palline perché sosteneva che ce lo dovevamo mangiare, dato che di meglio non ce n’era. E certo la fame ce lo faceva mangiare, specie quando mio padre non riusciva a portare a casa qualche vastidduni di contrabbando che, in barba ai controlli della milizia, si riusciva a trovare. Avendo i picciuli per pagarlo, s’intende. Circostanza questa che però non sempre si verificava. E quando ci lamentavamo per quello schifo di pane, levandoci la grazia di Dio, ci dicevano che la farina di segala ce la fornivano gli alleati tedeschi, bontà loro, e che anzi gli dovevamo essere grati. Ma un giorno al panificio non ci diedero più nemmeno quel pane di segala ed in cambio ci divisero le gallette militari. Le gallette militari avevano, anche loro, alcune caratteristiche qualificanti: erano molto bianche, avvolte nella carta velina ad uno ad uno, completamente senza sale, perché se no ai soldati veniva la sete, e dure, già in partenza, come le corna. Altrimenti che gallette sarebbero state? Ovviamente, per questa loro caratteristica, si potevano mangiare soltanto inzuppate nel latte, la mattina, o nell’acqua per il resto della giornata, sempre ammesso che ne fossero rimaste. La giornata ci passava gironzolando per il paese, fino a quando il pomeriggio andavamo al belvedere ad aspettare il ritorno di mio padre da Palermo, dove si recava ogni mattina, nella speranza di guadagnarsi qualcosa. Il che non doveva essere tanto facile, dato che si interessava di trasporti internazionali per conto delle ferrovie. E certo il momento non era tanto favorevole per quel tipo di lavoro. Il belvedere, verso l’ora in cui doveva arrivare il treno da Palermo, si riempiva di famiglie di sfollati che attendevano il ritorno dei loro cari, in quanto si stava sempre con la paura che qualcuno non tornasse, essendo rimasto sotto le macerie che i bombardamenti quotidiani provocavano. La stazione ferroviaria era collegata con il paese da una autocorriera che dimostrava tutto il peso dei suoi anni, tanto che, quando cominciava la salita, tutti i passeggeri dovevano scendere e proseguire a piedi. Una sera mio padre non arrivò con il solito treno e noi che aspettavamo cademmo in una angoscia terribile. Ogni sera si ripeteva la solita scena, chiedendo a coloro che arrivavano notizie su quanto era successo in città e sulle zone maggiormente colpite. Era il 9 maggio 1943, giorno in cui Palermo subì il bombardamento più intenso. Poi mio padre, per fortuna, arrivò con un altro treno . Era tutto impolverato e con escoriazioni alle mani ed alle gambe. Ma non più di tanto. Era successo che, percorrendo la Via Cipressi per recarsi alla Stazione Lolli, vide alcuni fabbricati diroccati dalle bombe cadute di fresco e della gente che cercava disperatamente di scavare fra le macerie da dove si sentivano pervenire lamenti di gente che era rimasta sotto. E mio padre aveva sentito l’irrefrenabile bisogno di unirsi alle ricerche, che ebbero esito positivo. Ma, durante le operazioni di soccorso, alcuni massi gli erano rotolati addosso, provocandogli però soltanto alcune escoriazioni alle gambe. Quelle alle mani, invece, erano state causate dal frenetico scavare. Un giorno nella piazza del paese trovammo montata una piccola tenda circolare. Era di una famiglia di circensi: chiaramente dei poveri disgraziati che cercavano di sbarcare il lunario, esibendosi il pomeriggio in uno spettacolo alla buona. Io ero molto incuriosito da quanto poteva offrire quello spettacolo, ma, ovviamente, non potevo pagarmi il misero biglietto, ne mi passava per la testa di chiedere i soldi a mia madre, conoscendone già la risposta: “Ma chi si fuoddi? Camina.” Ma, sbirciando attraverso le fessure del tendone, grazie alla sua compiacente vetustà, riuscivo a vedere qualcosa: un artista, penso fosse il padre, si esibiva con un asinello e con un botolo ammaestrato, mentre una ragazza, in costumi succinti, faceva, da solista, che d’altronde sola lei era, una specie di balletto, al suono di una musica proveniente da un grammofono a manovella, per la verità un po’ gracchiante. Ricordo ancora oggi quella musica e le parole da lei cantate in diretta: “Birimbo Birambo l’amore cos’è / Birimbo Birambo sai dirmi perché / Birimbo Birambo vuol dire per me / Io voglio bene a te.” Qualcuno ne ricorda la musica? Io si. Ce l’ho sempre in testa, evidentemente rinchiusa in qualche nicchia ben protetta del mio cervello. Peccato che non sappia scriverla. A me, che era la prima volte che vedevo una ragazza in costume succinto, lei sembrava bellissima. E forse lo era. Chissà. E non sapevo resistere dall’istinto irrefrenabile di guardarla. Solo dopo alcuni anni capii che evidentemente era stata colpa dei miei ormoni maschili che cominciavano a fare a pugni per emergere. Certo, penso che se la dovessi rivedere oggi, anche a distanza di tanti anni, le offrirei una rosa. Rossa.
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