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28 dicembre 2010

I CONTORNI DEL VIGORELLI NELLA MIA MEMORIA DI BAMBINO (1956-1962) - Parte terza

di Sandro Mancini


Quando scappò il leone ...

Si può immaginare la mia tristezza nell’aver assistito, come tutti, alla parabola discendente dell’Alfa: rivedo i quartier generali dei notabilati che occupavano i partiti del centrosinistra (primo tra tutti quello di De Mita, il quale impose le assunzioni all’Alfasud Pomigliano d’Arco sulla base non certo del merito; certo non sarebbe mancato ottimo personale anche in Campania, visto che l’Alfa vi produceva i motori per l’aviazione e vi assemblava i camion francesi dell Saviem - Renault). Penso con malinconia all’insostituibile Luraghi che lascia la direzione dell’Alfa da sconfitto, e con lui il team che aveva fatto grande l’Alfa del dopoguerra, disperso tra Mercedes e BMW, con la benefica conseguenza che ne venne alle due marche teutoniche: le Mercedes iniziarono ad avere finalmente motori brillanti, le BMW a tenere la strada e non aver più bisogno dell’intervento delle officine specializzate che le rimettevano in squadra. Gli stessi ingegneri dell’Alfa di Luraghi fecero poi grande l’Audi, quando questa ripartì sotto le ali protettrici della Volkswagen e poi progressivamente cominciò ad affermarsi  dalla fine degli anni ’70. Infine rivedo la lunga notte della crisi, fino al punto più basso raggiunto dal modello 155 e dall’Arna: una decadenza  la cui colpa è stata addossata vergognosamente agli operai, mentre invece è il frutto della spoliazione dell’industria pubblica in Italia, uno dei primi guasti prodotti da tangentopoli. Non dimentichiamo che furono proprio gli operai, con loro gravissimo rischio, a smontare e portar via di nascosto i macchinari dal Portello, nella primavera del ’45, impedendo ai nazisti di distruggerli. E furono ancora i tecnici e gli operai a riavviare subito dopo l’attività industriale, con la produzione di cucine a gas, marchiate appunto Alfa Romeo, per venire incontro alla pressante richiesta di quel prodotto, necessario alle famiglie che tornavano nelle case abbandonate durante gli anni dei bombardamenti alleati.
Da bambino la fine dell’Alfa non era neppure immaginabile, e men che mai quella della Lancia, che avvenne ancor prima, nel 1969. Quando giocavamo ad alfisti e lancisti io prendevo la parte dei secondi (le Fiat neppure le consideravamo: eppure la filiale di Milano della Fiat era proprio di fronte al balcone della sala, e la prima macchina di mio padre che ricordo è una Topolino A blu scura, con gli interni in pelle rossi e il volante di bachelite color avorio). Del resto mi identificavo sempre coi minoritari e i perdenti: con gli indiani contro i cow boys, coi Sudisti contro i Nordisti.
Nella mia scelta per la Lancia giocava la loro eleganza superiore e gli interni di classe (il click delle portiere non è leggenda: si sentiva veramente!). Il papà di Sergio, del resto, cambiò la Giulietta per una Fulvia verde scura, che continuammo a guidare in cortile negli anni del liceo; e mio zio Gigetto aveva una Fulvia coupé verde-azzurro; la cambiò nel 1970 con un’altra Fulvia coupé seconda serie, ma andò male, risentendo evidentemente della nuova gestione Fiat. Così la vendette quasi subito e passò all’Alfa GT: ne ebbe ben tre (l’ultima nella nuova bellissima versione disegnata da Giugiaro, col cruscotto centrale).
La terza macchina in cui mi impratichii fu la Fiat 1300 di mio padre, color carta di zucchero e interni di stoffa di un elegante grigio. Nel 1968, quando avevo 16 anni, mio padre di domenica mattina mi portava nella parte semideserta di via Savonarola che dava dai due lati sulla Filiale Fiat, e lì eseguivo le manovre di posteggio e di inversione di marcia; quest’ultima era abbastanza impegnativa, perché la strada era stretta e a schiena d’asino (non c’era il servosterzo e la 1300 era una vettura comoda ma anche lenta e pesante).
Tuttavia il motivo determinante che nei nostri giochi mi fece optare per il partito dei lancisti fu proprio mio padre: negli anni ’30 egli aveva lavorato alla Lancia di Torino, anche se poi se ne era andato perché, lui di sentimenti antifascisti, aveva trovato un superiore che era invece un fascista acceso e lo penalizzava a motivo di ciò. Trasferitosi a Milano già prima della guerra, si era portato Torino nel cuore, soprattutto la mitica squadra calcistica del Toro. La pena per la tragedia di Superga – egli conosceva personalmente un giocatore, ma non ricordo più quale - non fu mai del tutto guarita, ed egli continuò a tifare Toro, anche se dopo Superga non mise più piede in uno stadio;  io non ho mai giocato a calcio seriamente, però  ho,  seppur fievolmente, continuato a tifare la squadra di mio padre. Ho vacillato solo quando ho appreso che anche il detestato Craxi tifava il Torino, ma ho resistito alla prova, e lo tifo tuttora, insieme al Palermo (per non deludere qualcuno tra i miei cari).
Molto altro è legato nei miei ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza al Vigo: accenno solo all’episodio del leone. Nello spiazzo collocato tra il Vigo e la Fiera, adibito alla bisogna a parcheggio, veniva tutti gli anni, di febbraio, il Circo a Milano, prima di spostarsi alle ex Varesine, vicino alla stazione FS Garibaldi. Si trattava sempre di un grande circo, e si alternavano quello di Darix Togni, quello di Moira Orfei, a volte veniva un circo straniero.

 Soprassiedo sulla nostra emozione grandissima, e sull’attesa spasmodica del nostro ingresso nel grande telone (purtroppo per noi si trattava di un unico spettacolo in tutto in un anno: se no i bambini si viziano, sentivamo ripetere dalle nostre mamme!). Da casa, a circa 100-200 metri, sentivamo il ruggito delle fiere, il barrito degli elefanti. Ebbene, uno dei tanti pomeriggi invernali passati nel box di Sergio, tra macchinine e trenini, un leone – chissà come – fuggì dalla gabbia, per fortuna dopo aver mangiato, e satollo trotterellò intorno al marciapiede del Vigo. Immediatamente accortosi, il personale del circo lo raggiunse e cerco di immobilizzarlo, ma invano. Furono costretti a sparargli, e venne abbattuto proprio lì. Noi non ci accorgemmo di niente, lì per lì; ma immaginate lo spavento delle nostre mamme, quando seppero che gironzolava un leone con noi  fuori casa. L’unico che rischiò fu il marito della custode del mio palazzo, un simpatico e buono camionista veneto, che con noi amava parlare e scherzare. Purtroppo, ma solo raramente, gli capitava di tornare a casa dal bar un po’ alticcio (mai brillo, comunque), e quella volta gli andò bene. Incrociò il leone sul marciapiede del Vigo e disse tra sé e sé: ‘ma guarda che cagnone!’, quindi serafico tirò diritto. A sua volta il leone, ancora alle prese con la digestione del cibo ricevuto in gabbia, non lo degnò della sua attenzione. A noi dispiacque molto, ovviamente, per la morte del povero leone ammaestrato, che non aveva fatto nulla per disturbare la quiete pubblica, neppure un ruggito. Il marito della custode andò avanti per anni a raccontare l’episodio singolare. L’ultimo ricordo che ho di lui, ormai molto malato, fu una volta che lo incontrai a metà degli anni ’70, all’incrocio tra c.so Sempione e via Domodossola. Si lamentava della nuova moda femminile della maxigonna: “Ma torneranno le minigonne!” concluse, tacendo il suo retropensiero, che però traspariva dal suo viso sofferente e silenziosamente si concludeva così: “Anche se io non potrò più vederle”.

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