LUI
di Andrea Basso Sr.
Quando entrammo, ebbi subito la sensazione che avessimo sbagliato casa. Si accedeva da una portafinestra, come tante ancora in uso nelle nostre borgate, e ti trovavi in un decoroso ambiente formato da quattro stanze, tutte in fila, e che formavano un lungo salone, dato che le porte che le mettevano in comunicazione erano tutte aperte. Ai due lati di queste stanze, erano state sistemate delle sedie su cui erano accomodati dei signori, quasi tutti in coppola regolamentare, che parlicchiavano del più e del meno di futili argomenti. Tutto ti dava quindi la sensazione di trovarti ad una visita di condoglianze, dove poi, in fondo al salone, c’è il tabuto con il de cuius cunzatu, buonanima, e i parenti tutti attorno, in lacrime. E invece era una visita di dovere e di rispetto per uno vivo. Era successo che Lui, per sbaglio, era stato messo al fresco e ce lo avevano tenuto per alcuni mesi. E quando si accorsero di essersi effettivamente sbagliati, lo rilasciarono, con tante scuse, suppongo, dato che dopo non lo disturbarono più. Era quindi doveroso, trattandosi di una persona di rispetto, andargli a fare una visita, come si usava in questi casi. Così mi spiegò almeno mio padre, non sottacendomi però il fatto che, trattandosi di uno dei suoi migliori clienti, non ne poteva farne a meno, pena la certa perdita del suddetto cliente. E che di clienti, data la concorrenza spietata, non è che ce ne avesse poi tanti, e la pignata bisognava pure metterla. Ci mettemmo quindi pazientemente in fila, data la grande affluenza di visitatori. In fondo alla sala, seduto su una comoda poltrona posta al centro, c’era Lui. Era un tipo piuttosto appesantito nella persona, anche in considerazione che doveva avere già un’età di tutto rispetto. Aveva il capo coperto dalla sua coppola, ed il resto avvolto in un ampio plaid. Era molto sereno in viso, con una espressione di pareva ti volesse dire “Chi ci putemu fari ?!”.Bacio di qua, bacio di la. Quindi si passava alla solita formula, pressappoco del tipo: “Vassabenerica, mi compiacio, ci vuoli pacienza, ecc.”. A cui Lui rispondeva, garbatamente, pressappoco con la solita formula, tipo: “Grazi, biddazzu, ma unn’era u casu ri risturbariti. U Signuri ti binirici. Assittativi”. E qui giravi i tacchi, che la gente di dietro pressava. Quindi si prendeva posto nelle sedie messe lì appositamente, e si scambiava con il vicino qualche parola, generalmente commentando il tempo cane che faceva e che i mandarini stavano cadendo tutti a terra ed èramu cunzumati. Un’anziana signora, come anziane sapevano apparire allora le nostre donne sessantenni, con tuppo appuntato con le forcelline, abito lungo nero, calze nere e grembiule nero, andava girando con una rosoliera in mano, i cui bicchierini erano già colmi di liquore di diversi colori. “Chi fa, u gradisci un pocu ri rosoliu? Ci avemu menta, caffè e ciliegia. Tuttu fattu n’casa.” Dovevi accettare, anche perché il diniego poteva essere considerato un’offesa, ed era il caso di evitare, dato il contesto. E poi il rosolio era effettivamente buono. Giudicando a posteriori. Una seconda inserviente, vestita sullo stesso stile della prima, ripassava con un vassoio, ritirandosi i bicchierini vuoti. Quindi ti rifacevi la fila, arribacio di qua, arribacio di la, “V’assabenerica” “ U Signuri ti binirici” e te ne potevi andare, avendo compiuto in pieno il tuo dovere.
E qualche tempo prima, avevo avuto già occasione di conoscere Lui. Mio padre era solito, prima che incominciasse la stagione del lavoro, farsi un giro dei clienti, che durante il periodo estivo vi erano poche occasioni di incontrare. E ciò al fine di riprendere i contatti con loro, aggiornandoli sulle novità normative, che anche allora non mancavano mai, e sul tipo di organizzazione che la sua ditta aveva posto in essere, rassicurandoli quindi che avrebbero avuto, come sempre, una continua e minuziosa assistenza. Anche quella volta, volle che lo accompagnassi in questo giro, ritenendo che mi sarebbe servito per fare esperienza dell’ambiente. Pigliando autobus e ripigliando autobus, alla fine arrivammo nella sua campagna, dove in quel periodo si trovava, unitamente ai suoi figli, i lavoranti, ed altro personale, qualificato in seguito come guardiani. Il cancello d’ingresso era chiuso a chiave, e quindi aspettavamo che venisse qualcuno ed approfittare per entrare. Ad un tratto, dall’alto muro di cinta, vedemmo spuntare un tizio, con il fucile in spalla, che passeggiava, come si vede fare alle sentinelle che sorvegliano i muri di cinta delle caserme. Pensammo di chiedergli di aprirci, ma ci rispose che chiavi non ne aveva e nemmeno poteva andare ad avvisare della nostra presenza, perché lui faceva il guardiano e non si poteva allontanare. Continuammo ad aspettare. Ad un tratto, vedendo giungere un “Leoncino” che portava casse vuote, ed il cui autista era fornito di chiavi, ci rallegrammo. Ma ingenuamente. Quell’autista infatti ci disse candidamente che si, era vero che avesse le chiavi per entrare, ma per entrare lui con il “Leoncino” e basta, che però, giunto alle case, avrebbe avvisato della nostra presenza. Questo lo poteva fare. Bontà sua. Ed in effetti, dopo qualche tempo, venne un giovane ad aprirci, invitandoci a seguirlo che eravamo attesi. Era una giornata molto assolata, e chiedemmo se qualcuno sapesse dove era il Don. Ma tutti gli interpellati ci dissero di non averlo visto in giro. Lo scoprimmo poi da soli, che sonnecchiava su una sedia, appoggiato ad una colonna della pinnata, dove c’era un poco di fresco. Ci accolse molto calorosamente, ci fece portare due bicchieri di acqua e zammù, compiacendosi della nostra visita. Avendo compiuto la nostra missione, passammo quindi ai saluti di rito, ringraziando per l’accoglienza e l’affettuosità. Gli facemmo presenti però le difficoltà incontrate per potere entrare e di questo se ne dispiacque, ma disse che era meglio essere prudenti, perché di gente inutile in mezzo ai piedi ce ne era tanta. Riguardo al guardiano sulla sommità del muro con la scupietta, ci precisò che ce n’erano diversi attorno al muro, e che era necessario, perché senò i ragazzini saltavano il muro e si futtievanu i manderini.
E poteva essere pure vero.
Dopo qualche giorno, venne a trovarci una persona di sua fiducia, e ci disse di essere stata espressamente incaricata da Lui di consegnarci il chiavino del cancello, che pesava circa mezzo chilo. In segno di affetto e di rispetto, con tante scuse e benedizioni del Signore.
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