Il mio ricordo di Lucio Dalla
di Dario Cordovana
Quando muore un personaggio così famoso come Lucio Dalla sembra quasi che il tempo si fermi e ci si ricorda come e quando si è avuta la notizia. Bene, io ero in un supermercato e c’era una radio privata a diffusione nazionale che metteva musica italiana. Terminata “Vado al massimo” di Vasco Rossi il conduttore fa: “Continuiamo a rendere omaggio a Lucio Dalla”… “ahahah” – faccio io – “ne parla come se fosse morto”….”che ricordiamo è venuto a mancare stamattina”. Boing! A quel punto, dopo aver finito in fretta la mia spesuccia (e per finirla più in fretta ho acchiappato in tutta fretta la prima bottiglia di acqua minerale che ho trovato, una delle più costose, con tanti saluti all’economia fatta fino a quel momento) mi sono lasciato travolgere dai ricordi. Non era uno dei miei cantanti preferiti Lucio Dalla: ecco, diciamo che fino a un certo punto della sua carriera l’ho anche seguito, perché qualche canzone, non dico buona, perché quelle le ha sempre fatte, ma financo interessante ogni tanto veniva fuori. Quando andavo al liceo c’era un mio amico che si era appassionato a Lucio perché aveva fatto un album dal titolo “Automobili” che erano la sua grande passione (questo mio amico era un tifoso sfegatato della Ferrari). Poi, al di là di questo interesse un po’ superficiale, scoprì che il Dalla faceva anche belle canzoni sic et simpliciter. In effetti l’album successivo, “Com’è profondo il mare” era l’anticamera del grande successo, che infatti non eluse il cantautore bolognese che l’anno successivo, era il 1978, grazie all’album denominato senza molta fantasia “Lucio Dalla” divenne l’uomo di punta della musica italiana. “L’anno che verrà”, “Stella di mare”, “Anna e Marco” le conoscevano tutti, ma ancora più bello, a mio parere, fu il successivo parto intitolato semplicemente “Dalla” (e dalli!). Otto pezzi ispiratissimi, tra cui “Futura”, “Meri Luis”, “Balla balla ballerino” e “Cara”, alternando volutamente i più noti a quelli più da intenditori. Poi i ricordi si fanno più nebulosi, ricordo “Telefonami tra vent’anni” sulla scia dell’album precedente, poi un bel pezzo di marca black “Washington”, e un’ispirazione sempre più intermittente. Ma Dalla per me è anche quello degli anni sessanta, quello che cantava “Fumetto”, sigla del programma per ragazzi “Gli eroi di cartone”, o “Pezzo zero”, senza testo e tutto vocalizzi, o quello che al Festival di Sanremo 1966 aveva cantato “Paff Bum” in coppia con gli Yardbirds! Poi l’anno dopo ancora Sanremo, un Festival tristissimo col suicidio di Tenco e Dalla che canta “Bisogna saper perdere”. Segue nel 1968 una sfortunata partecipazione a Canzonissima con “Il cielo” e poi di Lucio Dalla si sente parlare solo sporadicamente fino al terzo posto del Sanremo 1971 con la memorabile “4 marzo 1943”, introdotta da una frase solista al violino che resta nella memoria. Poi la quasi replica l’anno successivo con “Piazza grande” e poi le collaborazioni con Paola Pallottino e Roberto Roversi e le tournèe con Francesco De Gregori e Ron come ospite quando non lo conosceva nessuno. Nella lontananza di uno stadio riconoscere qualcuno su un palco può essere una chimera e così quando Ron attaccava la sua “I ragazzi italiani”, la gente che era lì chi per ascoltare Dalla, chi De Gregori, un po’ si rompeva (“Chi è questo, Dalla o De Gregori?” “Ve lo dico io chi è! E’ quella camurria di Rosalino Cellamare!”, così si esprimeva il mio amico dalliano….), ma alla fine era trionfo per tutti. E poi la tournèe con Gianni Morandi. Ultimo colpo di coda la partecipazione all’ultimo Sanremo proprio dall’amico Morandi; Dalla riveste di abiti decenti Pierdavide Carone (quello che aveva scritto gli “immortali” versi “in tutti i luoghi, in tutti i laghi per Valerio Scanu) e insieme intonano “Nanì”, storia di un amore impossibile per una prostituta. Dalla dirige il pupo Carone dal podio del direttore dell’orchestra e arricchisce il brano di azzeccati controcanti. Degno finale di una carriera da ricordare…
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