PITITTU
di Andrea Basso Sr.
Spesso, in questi tempi di crisi nera che stiamo attraversando e che sta portando tanta disoccupazione e tanta disperazione, sento dire in giro che c’è pitittu. Ed è vero. E tanti padri di famiglia non sanno come fare per tirare avanti.
Ed allora, la mia mente va indietro negli anni, e mi affiorano ricordi di un tipo di pitittu di altri tempi che era diverso da quello odierno: era pitittu di miseria.
Bussavano alla porta, e mia madre, guardando dallo spioncino, alla fatidica domanda “ Cu è? ”, si sentiva chiedere un poco di pane duro. E non sempre lei era in grado di soddisfare questo tipo di richiesta, sia perché il pane che si comprava veniva quasi sempre consumato per intero, e sia perché quello che restava veniva conservato, e quando era in quantità sufficiente, si faceva cotto, con un poco d’olio e pomodoro. E noi che ce lo mangiavamo, non è che ce ne lamentavamo, in quanto era considerato un piatto accettabile.
A tal proposito, non so se qualcuno ricorda quel vecchio detto popolare, che così recita: “ S’avissi ogghiu, pignateddu e sali, facissi pani cottu…… s’avissi pani”. Qualcuno, quando me lo sente dire, mi chiede: “Ma che significa?”. Significa che spesso non c’era da mangiare nemmeno quello e si mancava di tutto.
A volte c’era un piatto di pasta rimasto dal giorno prima. Ed allora mia madre lo porgeva, unitamente ad un cucchiaio, alla povera richiedente, che accettava con grande gioia, non aspettandosi una giornata tanto fortunata : si sedeva nei gradini della scala e se lo mangiava avidamente. E, quando salivano con i bambini, facevano un cucchiaio l’uno, a giro.
Ricordo che, per un certo periodo, la mattina veniva a casa nostra una ragazza per aiutare mia madre nelle faccende domestiche. Veniva dai Danisinni. Lei, quello che mangiavamo a pranzo, non lo mangiava. Si avvolgeva tutto in una mappina e se lo portava, perché diceva che a casa sua trovava cinque fratellini, regolarmente digiuni. E che aspettavano lei per metter qualcosa sotto i denti.
Lei a pranzo non mangiava. E neanche a cena. Ma la mattina, quando arrivava a casa nostra, trovava sempre un piatto di pasta che, guarda caso, era rimasto dal giorno prima. E allora, alle sette di mattina, se lo calava, freddo per com’era, voracemente. Dato che era digiuna dalla mattina precedente.
La paga che si guadagnava glie la portava dritta dritta a sua madre. Di suo padre, diceva che era al fresco.
Certo, tutto questo andava a discapito di quelle che bussavano la mattina e che difficilmente trovavano un altro piatto di pasta avanzato.
E dietro la porta carraia della caserma “Generale Turba”, alle undici, c’era un gruppetto di ragazzini e non, scalzi e con i vestiti laceri, che aspettavano di ricevere nelle loro lanne qualche cuppinata di rancio, che i soldati addetti alla distribuzione, facevano sapientemente avanzare, bontà loro, per questo scopo.
Un teorico del pitittu era stato il poeta popolare e, a sua insaputa, surrealista, Giuseppe Schiera, poi morto sotto le bombe, che, dopo avere recitato le sue poesie, distribuiva all’attento pubblico i pizzini, girando con la coppola in mano e dicendo: “Rispittamu a fabbrica ru pititto”.
Quando mi affiorano ricordi del genere e li racconto ai giovani d’oggi, spesso mi sento rispondere che erano altri tempi, e che era colpa di quella maledetta guerra. E che oggi le cose sono diverse.
Però, penso che sia bene sapere certe cose del passato, specie sentendole raccontare da chi le ha vissuto, ed appartenente ad una razza oggi in via di estinzione.
Per cercare di capire meglio il presente.
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