RAGAZZI DEL '99
di Andrea Basso Sr.
Lui saliva e suo fratello Vincenzino scendeva …
La disfatta di Caporetto, il 24 ottobre 1917, aveva determinato un momento di grandissima crisi per il Paese e per il Regio Esercito che, ritirandosi rovinosamente, rinsaldò le file sul Piave, del Grappa e del Montello, permettendo così la riscossa nel ‘18, ad un anno esatto da Caporetto, con la battaglia di Vittorio Veneto, che portò alla firma dell’armistizio di Villa Giusti da parte dell’Impero austro-ungarico.
A Roma, intanto, in seguito a questi avvenimenti, per ordine del re, si formò un nuovo governo, presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, a noi siciliani ben noto, il quale prontamente, cambiò allenatore, come si direbbe oggi: fuori Luigi Cadorna, con tanti ringraziamenti, e dentro Armando Diaz.
E le cose effettivamente cambiarono.
L’esercito si riorganizzo velocemente. Diaz mise in campo forze nuove e furono precettati i ragazzi del ’99, che ancora non avevano compiuti diciotto anni, e quindi non potevano essere impiegati sul campo di battaglia. I primi contingenti, di circa 80.000 uomini, furono frettolosamente istruiti e, nel novembre 1917, compiuti i diciotto anni, furono inviati al fronte. Il loro apporto, unito all’esperienza dei veterani, si dimostrò fondamentale per la vittoria finale.
E questa è storia risaputa. Ma, comunque, fa sempre bene rinfrescare i ricordi.
Non è invece risaputo da nessuno, tranne che dagli intimi, che fra questi ragazzi, c’era anche mio Padre Luigino. Intanto suo fratello Vincenzino, che era di qualche anno più grande di lui, e quindi era partito prima, si era fatta la sua brava disfatta di Caporetto, certamente non per colpa sua, e se ne scendeva verso il Piave. Li, dalle parti dove poi “Il Piave mormorò.”
Mio Padre ci raccontava che era in artiglieria pesante di montagna e trascinarsi con i muli quei cannoni e relative munizioni, fra le montagne innevate, non era certo impresa facile. Ma i ragazzi, armati di tanto entusiasmo e di buona volontà, ci riuscivano.
E sparavano continuamente contro il nemico, al punto che gli affusti dei cannoni si infuocavano. E bisognava attendere che si raffreddassero per poter continuare a sparare. Allora quei ragazzi, per affrettare questa operazione, si toglievano i pastrani, li imbottivano di neve e con essi coprivano i cannoni. Non curandosi del gelo che c’era.
E fu così che mio padre si prese la broncopolmonite e lo ricoverarono prontamente nell’ospedale di Conegliano Veneto. Ma, con l’aiuto del buon Dio, ne venne fuori vivo.
E una volta che una pallottola orba uccise un mulo, loro, prudentemente, lo ricoprirono di neve. Diremmo oggi che lo surgelarono. E quando non arrivavano i rifornimenti, che capitava spesso, si arrangiavano tagliando qualche fetta di mulo e facendola arrostita. E così sopravvivevano. Ma quando non arrivavano le munizioni, allora si che erano guai. Non si poteva fare altro che aspettare.
Quando le truppe italiane iniziarono l’avanzata, successe che i bersaglieri, velocemente, occuparono le postazioni nemiche. Tanto velocemente che l’artiglieria, non tempestivamente avvisata, che i telefonini non glie li avevano ancora forniti, continuò a sparare in quella zona, con i danni che possiamo immaginare. Come si vede, di fuoco amico si è sempre morti. Fino a quando i bersaglieri mandarono una staffetta per avvisare l’artiglieria che era il caso di alzare il tiro.
Alle truppe, di solito, dopo gli aspri combattimenti, veniva concesso un periodo di riposo, che trascorrevano nei paesini delle retrovie.
E in uno di questi paesini venne inviata a rilassarsi una compagnia di questi bravi ragazzi. E lì trovarono solo due donne che si concedevano, professando il mestiere più antico del mondo. E si arrangiarono tutti.
Ma dopo arrivò un battaglione, ed i soldati, venuti a conoscenza della situazione esistente in merito, si misero le mani ai capelli, temendo di non poter essere soddisfatti tutti. Mentre le due ragazze compiacenti, pur essendo coscienti che loro sempre due erano, non si preoccuparono per nulla. Ma, con tanta buona volontà, ce la fecero pure. Come si vede, ognuno si combattè la propria guerra, come potette, per il fine ultimo della vittoria finale.
Ma quanti morti, poveri ragazzi!
Ancora oggi, i nostri montanari li ricordano con i loro canti:
“Sul ponte di Bassano, bandiera nera. E’ il lutto degli alpini che va alla guerra: La meglio zoventù l’è sotto terra. Col fazzoletto bianco mi salutava, E co’ la bocca i baci la mi mandava.”
Cantarla, nel silenzio dei monti, come capitò a me, vi assicuro che fa un effetto commovente. Roba da fare accapponare la pelle.
E quando finì la guerra, quei ragazzi, o almeno i più fortunati di loro, se ne tornarono a casa. E le loro mamme si dicevano orgogliose di avere mandato i loro figli in guerra.
Mia nonna, quando incontrava sua sorella Checchina, si sentiva ripetere: “Eh, Annina, tu hai mandato due figli al fronte e ti sono tornati vivi tutti e due. Io ne ho mandato uno e non mi è tornato nemmeno morto.”
Questo cugino di mio padre era anch’egli un ragazzo del ‘99. Ed erano partiti insieme. Ma lui fece parte di quelli, meno fortunati, che non tornarono.
Quando la zia Checchina incontrava mio padre, gli diceva: “Eh, Luigì, tu sei qua e mio figlio è morto.” Che tragedia, povera donna.
Mio padre, quando vedeva la zia Checchina, cercava di scansarla, perché pensava che gli portasse attasso. Ma non era vero, povera zia. E’ che si rinnovava in lei un gran dolore.
Intanto mio padre, per il si e per il no, una toccata se la dava.
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