Isa Pruré
di Andrea Basso Sr.
A Porta Nuova, un po’ più sopra dell’antica posta dei cavalli, che sempre dicono che la debbono restaurare, ma non lo fanno mai, per mancanza soldi, ma questa è un’altra storia, in una palazzina stile anni venti, ci stava una ragazza. Si chiamava Provvidenza, in famiglia Prurè, diminutivo vezzeggiativo palermitano, come si usava allora negli ambienti più popolari. Che ora, invece, le Provvidenza si chiamano tutte Enza, che effettivamente suona più fine.
Prurè, ogni mattina, all’orario che sapeva lei, calava u panaru, nella speranza che il postino ci mettesse dentro una lettera del suo ragazzo, che era al fronte. Eravamo infatti negli anni quaranta e c’era quella maledetta guerra, che portò tanti lutti e distruzioni.
Lei aspettava pazientemente e, quando le andava bene, il postino, mettendo la lettera nel panaru, dava un piccolo strattone alla corda, per segnalare la sua presenza e, alzando gli occhi, le diceva:
-”Isa Prurè c’o travagghiu c’è.” - Che, tradotto letteralmente per gli stranieri, fa -“Alza Provvidenza che il lavoro c’è” -
E questa frase entrò nell’uso comune della parlata palermitana, per dire: -” Sbrighiamoci che abbiamo tante cose da fare.” -
Ma oggi, con il passare delle generazioni, questo modo di dire si è perduto.
E, a proposito delle lettere degli anni della guerra, mi viene in mente il taglio che gli addetti alla censura del regime facevano per leggere la lettera. E quando ritenevano che qualche notizia poteva risultare pericolosa, stampigliavano lo scritto in nero, in modo che non si potesse leggere. E dopo questa operazione, richiudevano la busta, incollandoci sopra una striscia di carta, con sopra scritto “CENSURA”.
Che pena! Solo a pensare che quelle piccole cose intime ed affettuose che due fidanzatini innamorati, nell’attesa di potersi riabbracciare, potevano scambiarsi, dovevano essere lette da altre persone. Che pena!
Un altro modo di dire popolare, oggi pure scomparso, era legato al Monte di Pietà.
In quei tempi, quando nella famiglia reale si verificava un evento festoso, tipo la nascita di un nuovo erede, o un matrimonio regale, per fare partecipare i sudditi alla festa, specie quelli meno abbienti, il re era solito spegnare il Monte.
L’operazione consisteva nel pagare, con i soldi della corona, le polizze dei pegni di cui tanta gente bisognosa era in possesso, avendo portato al Monte di Pietà una collanina od altro oggetto d’oro, magari ricevuto come regalo in occasione del battesimo di un figlio, in tempi in cui c’era più scarsezza di oggi, per cercare di monetizzare e poter tirare avanti.
Il popolo, interessato al fatto, conoscendo gli usi, di buon mattino, si radunava a Piazza Monte di Pietà, dove c’era appunto detto istituto, allora gestito dalla Cassa di Risparmio, in attesa della comunicazione ufficiale.
E, quando si apriva il balcone principale e si affacciava il Soprintendente, si faceva un gran silenzio.
Ed allora si sentiva pronunziare la formula di rito:
Ho l’onore di comunicare che
Sua Maestà Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d’Italia e d’Albania ed Imperatore d’Etiopia, per grazia di Dio e volontà della Nazione, per festeggiare con il popolo dei suoi sudditi l’evento felice verificatosi nella sua famiglia, ha deciso, a spese della Corona, di spegnare il Monte.
Non faceva in tempo a finire di pronunziare queste parole, che dalla piazza, gremita di tanta gente, si alzavano grandi grida di giubilo.
E così rimase l’uso di dire, nella parlata comune palermitana, quando si sentiva in una riunione di persone un gran vociare,
“E chi spignò u Munti?”
Oggi u Munti non spegna più. Popolo sovrano, ti è piaciuta la Repubblica? Ed ora tienitela.
Però è meglio così.
Certo, il nostro illustre concittadino Sergio Mattarella, quando è stato eletto Presidente della Repubblica Italiana, volendo, il Monte lo poteva spegnare.
Ma con quali soldi, che quelli della corona non ci sono più? Con i suoi emolumenti? Un po’ scarsini. Con quelli dell’Erario?
E non si può fare.
|