Sanremo 2017, un commento molto meditato
di Dario Cordovana
Diceva Alessandro Manzoni che se il coraggio uno non ce l’ha
non se lo può inventare. E alla terza edizione targata Carlo Conti è mancato
proprio quello. Il presentatore toscano è andato sul sicuro cercando di
acchiappare audience grazie alla presenza di Maria De Filippi, che per fortuna
si è limitata a presentare le canzoni (abbastanza bene, devo dire). Del resto
negli spot pre-festival i due conduttori avevano ironizzato ipotizzando un
impossibile duetto canoro al suono di “Vattene amore”, come qualche anno fa
avevano fatto Fabio Fazio e Luciana Littizzetto.
Al di là dell’allargamento del cast dei campioni a 22 per la
elevata qualità delle canzoni (!), il meccanismo non ha presentato molte
novità, con un mix di votanti formato da una giuria demoscopica, dal televoto e
dalla solita sedicente giuria di qualità, con la solita attricetta e persino la
youtuber di turno (che nel corso della serata finale ha persino ringraziato il
musicista Andrea Morricone che faceva parte della giuria, per averle dato dei
preziosi consigli – ma allora lei che ci stava a fare?) che non si capiva bene
quali referenze musicali potessero avere, la serata del giovedì dedicata alle
cover, che ormai da qualche anno esulano dalla storia del Festival, e le
consuete eliminazioni con ripescaggio. Fortunatamente anzi, quest’anno ci hanno
risparmiato quello di una canzone tra le escluse proprio in dirittura della
serata finale. L’anno scorso era stata ripescata Irene Fornaciari che si era
comunque classificata ultima in finale, quindi a che pro?
Ma soprattutto il coraggio è mancato ai cantanti. Novità
zero (e va bè, a questo ormai da anni siamo abituati), ma quest’anno come non
mai è stato tutto un gioco di rimandi a qualcosa di già sentito, ed in modo
ancora più netto che in passato. Dalla canzone di Fabrizio Moro che ne
riprendeva una vecchia di Michele Zarrillo, a quella di Ron che ricordava “In
una notte così” di Riccardo Fogli, dal pezzo di Fiorella Mannoia, già costruito
sulla falsariga di quello con cui Vecchioni vinse al Festival nel 2011 e molto
somigliante a una canzone di Michele Bravi, alla canzone vincitrice,
“Occidentali’s Karma” di Francesco Gabbani, visto come il salvatore della
patria perché per lo meno aveva un pezzo vivace e originale, salvo scoprire che
il pezzo aveva più di una radice in un brano degli anni ’80 intitolato “Run to
me” (cercatevi la versione di Tracy Spencer). Per non parlare di quelli che
hanno citato se stessi, come Alessio Bernabei, Francesco Gabbani, Al Bano.
In compenso, con Gigi D’Alessio finalmente più misurato del
solito, è stata dura trovare una vera schifezza. Sanremo 2017 è stato più che
altro il regno della mediocrità assoluta. Ormai quasi tutte le canzoni iniziano
con una lunga introduzione cantata a bassa voce che sfodera una tonnellata di
parole (che non si sentono), per poi prorompere in un ritornello che in fondo è
quello che decide la riuscita del pezzo. Anche se Fiorella Mannoia ha
dimostrato che, se una cantante è brava, le parole del pezzo si sentono sempre,
una delle poche che è sfuggita a questa regola non scritta è stata Paola Turci.
La cantante romana, che a Sanremo non si vedeva dal 2001, ha presentato un
brano, “Fatti bella per te”, che per lo meno era più energico degli altri e
meno scontato, anche se costruito nel ritornello sullo schema che aveva fatto
la fortuna della “Noi siamo infinito” di Alessio Bernabei dell’anno scorso.
Il resto delle canzoni puzzava di vecchio (a proposito di
vecchio, meritatissima la vittoria di Ermal Meta nella serata delle cover, con
un’interpretazione azzeccata e originale di “Amara terra mia” di Modugno”), e
allora viva quei cantanti come Al Bano, Ron, Bianca Atzei che parevano un po’
più sopportabili perché la loro sembrava una scelta cosciente e non un
omologarsi all’andazzo generale. Un commentatore ha scritto che uno dei pochi
personaggi autentici fosse Michele Bravi, perché presentava un brano, “Il
diario degli errori”, adatto alla sua età. A lui faccio presente che il pezzo
suddetto ha una tematica da quindicenni, mentre Michele Bravi, che deve essere
uno a maturazione lenta, ha ormai 22 anni.
Parlando di giovani, pur non essendo niente di speciale,
rispetto ai cosiddetti campioni, hanno spesso rischiato di fare un figurone e
almeno Braschi e Maldestro, forse anche Marianne Mirage, meritano di essere seguiti
con attenzione. Invece ha vinto Lele con “Ora mai”, originalità zero. Così va
il mondo e così va Sanremo. Appuntamento all’anno prossimo.
|