Vuoi vedere che alla fine questo “Sanremo giovani” è più
importante di quanto non sembri? Sono ormai 4 anni che il vincitore di Sanremo
viene da lì. Dopo Francesco Gabbani, Fabrizio Moro ed Ermal Meta, Mahmood,
quest’anno è toccato a Diodato sbancare il Festival. E non ho usato sbancare a
caso perché la sua canzone “Fai rumore” ha fatto proprio incetta di premi,
mettendo d’accordo se non tutti, almeno un bel po’ di persone.
Certo che i “giovani” di quest’anno non è che si siano
sforzati troppo per fare intravedere il loro talento. Il vincitore, Leo
Gassmann (dove avrò già sentito questo nome?), dapprima emozionatissimo tanto
che pensavo potesse svenire in diretta, poi sempre più sciolto, ha una voce
interessante messa al servizio della canzone sbagliata. Sbagliata, ma furba
quanto bastava per fare giustizia su Tecla (un clone esagerato dell’Arisa più
mielosa). Gli altri sono sembrati quasi tutti davvero alquanto acerbi, con una
parziale eccezione per Fasma e per gli Eugenio in via di Gioia che sono
sembrati anche troppo gasati nell’esecuzione del loro pezzo, ma malgrado questo
e un’eliminazione precoce hanno riscosso consensi.
Bene ha fatto comunque Amadeus (al suo primo, e visto il
successo di ascolti, credo non ultimo festival), a piazzarli in apertura delle
serate, col solo difetto, non da poco, che tra una cosa e l’altra, il primo
cantante dei Campioni entrava in scena alle 22.00.
La durata delle serate è stata uno dei punti dolenti di
questa edizione: evidentemente Amadeus pensa che gli italiani siano
perennemente in vacanza, o si prendano tutti una settimana di ferie e Fiorello
non è da meno: apparentemente si lamentava della lunghezza di Amadeus, ma poi
in realtà anche lui si dilungava parecchio in siparietti interminabili. Lo
spettacolo ha avuto un grande successo, ma è stato il regno del disordine
mascherato. La scaletta non ha mai seguito un filo logico ed è sembrato che si
facessero entrare in scena troppi ospiti, in un programma già ricco, che
avevano poco da offrire (vedi la lunghissima e inutile attesa prima della
proclamazione del vincitore). Il tutto appunto mascherato dalla frase chiave di
questa edizione “A Sanremo quest’anno può succedere di tutto”.
Molte novità spacciate per tali in realtà erano trovate
riciclate. Per la prima volta in settant’anni viene allestito un palco
denominato “Nutella stage” per ospitare concerti estemporanei di alcuni degli
ospiti o dei cantanti del Festival. Ma in realtà già nel 1987 al Palarock Carlo
Massarini presentava gli ospiti stranieri, e allora dov’è la novità?
In realtà la vera sorpresa è stata la squalifica inevitabile
di Bugo e Morgan, dopo la clamorosa alterazione del testo di “Sincero” nella
serata di venerdì fatta da quest’ultimo risultante in un attacco al collega e
nell’abbandono del palco di Bugo. Panico in scena ben contenuto dal flemmatico
Amadeus e…the show must go on.
La qualità delle canzoni è sembrata mediamente buona,
soprattutto perché ogni pezzo in fondo aveva una sua ragion d’essere. Persino
la lambada (così sarebbe stata definita trent’anni fa) di Elettra Lamborghini.
Le cose più interessanti però denunciavano influenze insospettabili, fin dal
pezzo del vincitore Diodato che richiamava nelle strofe le progressioni
armoniche di certi brani dei Pulp, o la vocalità di Elodie che faceva pensare a
Bjork, oppure ancora il bravissimo Raphael Gualazzi in versione Kid Creole
senza Coconuts, ma con un nutrito gruppo di musicisti aggiunti e
mini-ballerini.
Grande ritorno al Festival per due signore della canzone.
Rita Pavone si è fortunatamente scelta un pezzo sufficientemente al passo coi
tempi e che le dava la possibilità di sfoderare una grinta degna di una
ventenne. Rita canta meglio adesso di quando era giovane. Un’altra che come il
buon vino invecchiando migliora è Tosca, la più brava interprete del Festival,
giudizio confermato anche per la serata delle cover.
Sanremo ha anche confermato che le parti musicali più
interessanti spesso alla fine ce le hanno i rapper, che quindi, anche quando
non cantano, un po’ di competenza musicale o nello scegliersi i collaboratori
ce la devono avere. Né Anastasio, né Rancore hanno fatto eccezione. Junior
Cally invece sembrava un epigono di Ugolino (per chi si ricorda la sua “Ma che
bella giornata” di fine anni sessanta), naturalmente “mutatis mutandi”.
Reparto parziali delusioni: Achille Lauro ha sorpreso con il
suo look, ma “Me ne frego” ha fin troppi punti in comune con la “Rolls Royce”
dello scorso anno. Gradevole, ma si sperava in qualcosa di diverso. Paolo
Jannacci ha parzialmente sprecato la sua chance al Festival con un motivo non
brutto, ma fin troppo sanremese, ma si è riscattato nella serata delle cover
ripescando la “Se me lo dicevi prima” di suo padre Enzo, per altro ancora
attualissima.
Dopo Diodato e Gabbani al terzo posto sono arrivati i
Pinguini Tattici Nucleari, che hanno portato un po’ di Beatles al Festival,
anche se solo nel titolo della loro “Ringo Starr”. Pezzo da cantare in
torpedone con una parte di basso sopra la media. Un terzo posto a sorpresa, ma
non tanto, se li inseriamo nel filone di successo inaugurato dallo Stato
Sociale due anni fa. Il loro medley nella serata delle cover però non eccelleva
per inventiva e anche l’idea non era del tutto nuova (vedi alla voce “Vincere
l’odio” di Elio e le Storie Tese, 2016).
Ultima notazione: senza
squilli di trombe e forse involontariamente il Festival ha celebrato i 50 anni
dell’edizione 1970: tra cantanti in gara, nei duetti della serata delle cover,
e tra gli ospiti si sono rivisti Rita Pavone, Fausto Leali, Ornella Vanoni,
Tony Renis, Bobby Solo, i Ricchi e Poveri (nella formazione originale con
Marina Occhiena e Franco Gatti!) e persino lo scomparso Little Tony con il
quale ha virtualmente duettato Piero Pelù nell’esecuzione di “Cuore matto”. E
in più anche Al Bano e Romina Power, appartenenti a quella generazione di
cantanti, ma non presenti in quella edizione. E così anche i nostalgici sono
stati accontentati. Attendiamo Nicola Di Bari e/o Nada per le celebrazioni
dell’anno prossimo.