Storia semiseria e disordinata della canzone italiana - decima puntata - Beatlesmania
di Dario Cordovana
Abbiamo detto che il Festival di Sanremo del 1964 fu caratterizzato da un notevole rinnovamento, con l’arrivo dei cantanti stranieri, e con il successo di alcune giovani promesse come la Cinquetti o Bobby Solo che abbrancata un’improvvisa notorietà non la lasceranno per molti anni. Certo che però se uno dà uno sguardo a quello che succedeva oltremanica tutto si ridimensiona. In Inghilterra, quella Inghilterra che mai era stata protagonista della scena musicale internazionale, era successo qualcosa di straordinario: per la prima volta, invece di andare pedissequamente a rimorchio dei fenomeni che arrivavano dagli Stati Uniti e sfornarne pallide imitazioni, venne fuori un gruppo che riuscì ad elaborare una propria sintesi originale delle influenze americane, e tutto questo (cosa veramente inaudita a quell’epoca), scrivendosi da soli i propri pezzi. Ovviamente è dei Beatles che stiamo parlando, e del genere a loro assimilato, quello della musica “beat”. “Beat” in inglese vuol dire “battere”, e questo già dà l’idea di come l’accento si spostasse sul ritmo, cosa che avrebbe portato un certo shock in Italia, dove l’accento era sempre stato sulla melodia del pezzo. Naturalmente i Beatles non rimasero soli, ma vennero seguiti da tanti altri gruppi, ognuno con le sue caratteristiche e la sua personalità (Rolling Stones, Kinks, Who, Animals, Yardbirds, Small Faces…), e anche da alcuni imitatori come gli Herman’s Hermits che, se inizialmente riscossero un grande successo soprattutto in America, poi sono stati dimenticati. Anche in Italia tutto questo portò alla formazione di vari gruppi nostrani, che avevano tanto entusiasmo e tanta voglia di eseguire anche loro “quella” musica, ma che faticavano parecchio a procurarsi la materia prima: i pezzi da eseguire. Infatti, mancando di team compositivi efficaci come Lennon e McCartney e non volendo affidarsi ai soliti autori “da Sanremo” che in quel nuovo genere erano ancora apprendisti, dovevano per forza eseguire quelle che col tempo verranno chiamate delle “cover” dei pezzi inglesi, ovvero gli stessi pezzi dei gruppi inglesi, ma nella loro versione. Versione che poi era cantata in italiano, perché gli italiani all’epoca l’inglese lo masticavano poco (a scuola si studiava più spesso il francese), e siccome il testo aveva la sua importanza e spesso determinava il successo di una canzone, ci si riduceva ad esempio, sulle note di “From me to you” dei Beatles a cantare: “Cambia tattica insieme a meeee…” Nel 1964 queste cose erano ancora un po’ ai margini della scena musicale italiana, il boom ci sarà l’anno seguente, resta però da notare come al fenomeno presero parte dei gruppi inglesi allora sconosciuti (e rimasti sconosciuti in patria anche dopo) che sbarcarono (in realtà con l’aereo o il treno presumo) in Italia proprio quell’anno per dare un senso alla loro carriera: i Motowns, i Renegades, i Primitives di Mal dei Primitives, e soprattutto i Rokes di Shel Shapiro. Proprio in quell’anno i Rokes colsero i loro primi successi, da “Un’anima pura” a “C’è una strana espressione nei tuoi occhi”; cantati in italiano, con forte accento alla Don Lurio, essi sono rispettivamente un pezzo scritto da autori italiani e una cover, oltretutto di un brano non molto famoso. Questa sarà alla fine la carta vincente nella scelta delle cover, quella di andare alla ricerca di pezzi meno famosi, ma potenzialmente adatti a diventare un successo; così i Rokes porteranno in alto due oscuri pezzi dell’altrettanto oscuro cantautore Bob Lind e, tradottili in “italurio” (italiano cantato alla Don Lurio), li faranno diventare i celebri “Che colpa abbiamo noi” e “E’ la pioggia che va”.
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