E ci sciacquammo i panni nell’Arno… - PARTE I
di Paolo Castellana
Finalmente arriviamo in Brasile (alias hotel) ammucchiamo i bagagli, gli zaini, gli zainetti, tutto … tranne l’ormai mitico zaino giallo di Piazza Alessio, rigorosamente ricoprente la divisa militare dello stesso. Arriva la prima di una lunga serie di paste con la salsa (buonissima alle undici di sera), poi varie cose umanamente commestibili infilzate, e poi tutti a nanna.
Ora dirò cos’è la nanna all’hotel Brasile la prima sera. Non senza aver detto che la mia notte prima della partenza è durata la bellezza di tre ore di sonno agitato.
E si sale nelle “rispettive” camere.
Strano concetto di rispettività: per i quarantanove significa recarsi in altre camere, non nella propria: altro che scambi di coppia, iniziano ad avvenire scambi di terzetti, di single, di interi gruppetti, il tutto svolto come se fossero le dieci del mattino e non l’una di notte.
“Allora ragazzi, non si può fare, bisogna che dormiate subito, la sveglia è alle sei, cioè fra poco” – “vabbè professo’” - “buonanotte, mi raccomando, okeeei” -“buonanotte buonanotte”. Se, vabbè... Cinque minuti dopo io, Marcelè, Aghi e Meriggiò sorprendiamo in tutto una trentina di profughi insonni, in tentativi di trasferimenti “rispettivi”.
Altolà, chivalà, fermi o sparo, dove state andando, e insomma per farla breve (ma l’abbiamo fatta lunga), dopo trentasette discussioni nelle varie camere e nei corridoi, alcune faticosissime, con la stanchezza che imperiosamente aveva pericolosamente aggredito il mio sistema simpatico e nervoso, ma che di simpatico non aveva da tempo più nulla, solo nervi ormai senza più pelle, dopo due minacce di arrivo della polizia o dei gruppi d’intervento di Bertolaso, finalmente giungiamo, verso l’una e tre quarti, ad un patto di non-belligeranza (se fossero state concluse le azioni di guerriglia notturna).
Mah, andiamo (per l’ennesima volta – per noi ancor più ennesima) a nanna.
E fu allora che percepii come una ninnananna, un sentore di ricordi lontani come di prati con uccellini cinguettanti e rumori dolci freschi e soavi di correnti fluviali e scrosci sorgivi.
E già sorrideva la mia corteccia cerebrale perché stava definitivamente (dopo due giorni) ormai chiudendo i portoni del castello della mente.
E già si ritirava quasi al minimo la frenesia e mi trovavo già in pre-letargo felice e liberatorio.
E già il coma guadagnava colline e bastioni e frotte di sogni si preparavano a darsi battaglia nell’inconscietà del sottoscritto, quando lo tsunami arrivò, dapprima subdolo e non senza sadicità, poi più veementemente. E lo sentii alfine lo squillo sordo ma non purtroppo muto del telefono. La mia mente ancora dormiva ma un mio braccio si alzò, come mosso da muscolo involontario, nel buio, cercando a tastoni la cornetta. L’afferrò debolmente portandola con moto moviolico all’orecchio: «Abbia pazienza professo’, ma quelli della 306 e della 307 non la smettono». Morfeo mi tirava, mi tirava, cercava ancora di avvolgermi con le sue braccia amiche, ormai però con l’eros a zero, dentro di me crebbe a dismisura l’essenza di Ares, dio della guerra e dell’antiterrorismo alunnesco. Fui un lampo: attraverso il tunnel spazio-teporale e il buco nero della voce dell’albergatore, balzai dall’universo del sogno all’universo della IV guerra punica. Mi materializzai davanti le porte delle due stanze incriminate, quasi abbattei le porte, chi è? Iiiiiooooo, ma era come se avessi esclamato per voi è finita. Silenzio. Mortificazione (sicuramente non dei ragazzi). Il giorno dopo, il giorno della (loro) chance ma anche il giorno di Firenze.
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